Giuseppe letizia, la prima “piccola” vittima della mafia

Tempo fa Vito Ciancimino, citato da Attilio Bolzoni in Parole d’onore, avrebbe affermato che: « La mafia non esiste più dal 1958. È finita quell’anno, con l’uccisione del mio concittadino corleonese dottore Michele Navarra. Perché quel giorno, assieme al dottore Navarra, hanno ucciso un altro medico giovane, che aveva la moglie incinta. Ecco, quel giorno questi cosiddetti mafiosi hanno ucciso un povero disgraziato. Da quel momento finì tutto. Perché la mafia, me lo diceva sempre mio padre, aveva dei canoni di giustizia e correttezza che rispettava e faceva rispettare. Certo, non poteva mettere in carcere nessuno la mafia. Ma quando sbagliava, loro lo ammazzavano, ma solo quello».

L’episodio a cui faceva riferimento Ciancimino è proprio quello in cui il dottore-boss Navarra veniva ucciso dal suo rivale Luciano Leggio, meglio conosciuto come Liggio, dove a perdere la vita fu anche un suo collega, Giovanni Russo, il povero disgraziato innocente della citazione. Ma se quell’anno fu per lui uno spartiacque perché la mafia venne meno a quel principio di onore e giustizia che fino a quel momento aveva conservato, divenendo da allora invece spregiudicata, forse Ciancimino dimenticava che, già dieci anni prima, lo stesso Navarra aveva compiuto la prima vera infrazione a quel codice non scritto con l’uccisione di Giuseppe Letizia, il tredicenne che, probabilmente, è stato involontariamente testimone oculare dell’assassinio del sindacalista Placido Rizzotto. Quella notte del 10 marzo 1948, infatti, il piccolo Giuseppe stava dormendo nella mangiatoia di un casolare che il padre aveva in uso nella contrada Malvello, a guardia di due muli che l’indomani avrebbe dovuto riportare in paese. La stessa contrada in cui si ritiene sia stato portato, per essere massacrato, Rizzotto. Giuseppe non tornerà a casa con le proprie gambe, sarà il padre a trovarlo il giorno dopo ancora lì, sotto shock e in preda alle allucinazioni. Non è dato sapere se raccontò al padre quello che aveva visto, nel tragitto verso l’ospedale Bianchi di Corleone. Ma si sa chi era il direttore di quell’ospedale: il mandante dell’omicidio di Rizzotto, Navarra stesso. Non sarà stato difficile, per Navarra, capire dai racconti del padre cosa Giuseppe avesse visto quella notte. Di lì a due giorni, il ragazzo morì. Il caso si diffuse tra l’opinione pubblica grazie agli articoli che alla vicenda dedicarono l’Unità e La voce della Sicilia.
La prima ipotesi, pubblicata su «L’Unità » di domenica 13 marzo, era quella che: « Il bambino sia stato involontariamente testimone dell’uccisione del Rizzotto e che le minacce e le intimidazioni lo abbiano talmente atterrito da provocargli uno shock e come conseguenza di esso la morte».
Più esplicito fu il settimanale «La Voce della Sicilia», che il 26 marzo azzardava: «Per avvelenamento o per trauma psichico l’allucinazione la morte del bambino? ». La tesi era basata sulla contraddizione tra la diagnosi formulata dal dottor Ignazio Dell’Aira, che lo aveva ufficialmente in cura, di «tossicosi», e la cura da lui prescritta  che pare fosse a base di un calmante, non di un disintossicante. Pochi giorni dopo, mentre le indagini dei carabinieri erano ancora concentrate sui racconti della famiglia, il dottor Dell’Aira chiuse il suo studio e partì per l’Australia, senza più fare ritorno.
I familiari di Giuseppe hanno sempre negato che il ragazzo avesse visto e raccontato di un qualsivoglia assassinio, ma forse non è sbagliato pensare che abbiano voluto evitare di attirare ulteriormente l’attenzione dei boss sulla loro famiglia.
Quello di Giuseppe Letizia rimane così l’ennesimo omicidio di mafia irrisolto e mai chiarito, anche se il suo nome già da tempo compare tra quelli elencati da Libera e letti ad alta voce ogni 21 marzo, in memoria delle vittime di una mafia che, per quanto ne pensasse Ciancimino, non ha mai avuto dignità.

di Simone Cerulli

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