Il “padre” e la “famiglia”, l’universo di Salvo Riina

Lamberto

Ne «I cento passi» di Marco Tullio Giordana c’è una scena in cui Luigi Lo Cascio, nei panni di Peppino Impastato, fa il verso ai mafiosi gridando al fratello: “Mio padre!! La mia famiglia!! Il mio paese!!”.
Salvo Riina, intervistato da Bruno Vespa, urla le stesse parole. Tranne una, l’ultima. Perché Toto Riina, latitante per venticinque anni, un paese stabile non può averlo. Ha Corleone, ha Palermo. Deve avere per forza anche Mazara del Vallo e Castelvetrano, San Giuseppe Jato e Capaci.
Ma le prime due parole, quelle si. Quelle le urla. È un atto di rivendicazione e di riabilitazione dell’universo di ideali e di valori mafiosi. Un manifesto, un nuovo messaggio che passa per la riaffermazione di vecchi significati. E proprio dall’analisi delle parole usate nell’intervista emergono alcuni spunti interessanti.
Come la parola “padre”, ad esempio, pronunciata 23 volte nei venti minuti in cui dura il confronto. Tutte le volte affiancata a quel “mio” che sembra quasi scavare un solco tra un immagine pubblica e una privata, tra un entità che esiste solo sui giornali o sulle carte del tribunale e una che esiste nella vita quotidiana. Come se le due facce non fossero la stessa medaglia. Quelle stesse parole che nel film sono gridate con disprezzo e con ironia sono adesso riaffermate in tutta la loro valenza. Non è un caso quindi se la seconda parola più usata nell’intervista è proprio “famiglia”, nominata 11 volte, una ogni due minuti di discorso. Con tutto un insieme di espressioni correlate: il suo “cognome”, i suoi “valori”, il suo “rispetto”, le sue “tradizioni”.
Ma la parola più usata è un’altra. È una negazione. Per ben 40 volte Salvatore Riina dice di “non” saper dire e “non” saper spiegare, dice di “non” essersi mai chiesto quale fosse il vero lavoro del padre, quale fosse il motivo del loro cognome falso, dice di “non” aver mai avuto sospetti su quell’uomo “forte e coraggioso”.
E le due negazioni più forti sono quelle che vanno insieme ai due verbi “giudicare” e “condividere”. Salvatore non giudica il padre, “non spetta a me farlo” dice. Non lo giudica perché lui conosce solo Salvatore Riina, anzi papà Salvatore. Non conosce Totò Riina, il capo dei capi. Non giudica gli omicidi, le vittime innocenti, gli attentati. Così come non giudica nemmeno le morti di Falcone e Borsellino.
I pentiti, invece, quelli li giudica. Li descrive come persone “usate dallo stato”. Ed è questa l’ultima grande parola chiave. Lo “stato”, nominato nell’intervista per 8 volte, la “mafia” invece solo 3. È una parola che scotta, difficile da usare. Tanto che Salvo Riina sembra quasi balbettare quando afferma: “La mafia oggi può essere tutto e nulla”. Ma la definizione più giusta, che va urlata, non sussurrata, è “la mafia è una montagna di merda”.

di Lamberto Rinaldi

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