La Cassazione riconosce anche lo “Straining”: Mobbing attenuato

Antonella Virgilio

Cass. 3 luglio 2013, n. 28603, VI Sezione Penale)
Accade sempre più frequentemente che nel luogo di lavoro si verifichino situazioni relazionali o organizzative non corrette e foriere di fenomeni disfunzionali.
Tra tali disfunzioni rientra il cd. “mobbing”, ovvero ciò che viene comunemente definito come il terrore psicologico sul luogo di lavoro, consistente in comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo, che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui relegato da reiterate attività ostili. Queste azioni, che danno spesso luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali per la vittima, rientrano nella definizione di mobbing, qualora siano caratterizzate da un’alta frequenza e da una durata significativa.
Con la recente sentenza del 3 luglio 2013 n. 28603, la Suprema Corte ha riconosciuto una forma più attenuata di mobbing, lo straining, ovvero una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, che può dar titolo ad un risarcimento per le lesioni subite, anche se connotata da sporadicità o unicità dell’azione vessatoria.
Con la sentenza in disamina i Giudici di legittimità hanno confermato la responsabilità penale del datore di lavoro, con conseguente obbligo a risarcire il danno patito dal lavoratore, per avere il primo dequalificato e sottoposto a trattamenti degradanti la vittima.
Si tratta di pronuncia particolarmente interessante che ha riconosciuto il pieno diritto ad essere risarcito ad un dipendente di banca, “messo all’angolo” fino a essere relegato a lavorare in uno «sgabuzzino, spoglio e sporco», con «mansioni dequalificanti» e «meramente esecutive e ripetitive»: comportamenti complessivamente ritenuti idonei a dequalificarne la professionalità, comportandone il passaggio da mansioni contrassegnate da una marcata autonomia decisionale a ruoli caratterizzati da “bassa e/o nessuna autonomia”, e dunque tali da marginalizzarne, in definitiva, l’attività lavorativa, con un reale svuotamento delle mansioni da lui espletate.
L’aspetto maggiormente innovativo della pronuncia, consiste nell’aver qualificato tali comportamenti non come “mobbing”, bensì come “straining”, ossia una sorta di mobbing attenuato. In altri termini, mentre il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante avanzamento, lo straining, in via parzialmente coincidente ma in parte diversa, è “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo in ambito lavorativo. Azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. Affinché si possa parlare di straining è dunque sufficiente una singola azione stressante, cui seguano effetti negativi duraturi nel tempo (come nel caso di gravissimo demansionamento o di svuotamento di mansioni), e che collochi la vittima in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer).
La Corte Suprema conferma il suo consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare. E il requisito della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, ricorre quando il rapporto si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Una volta cristallizzata l’interpretazione de qua, la Suprema Corte precisa come nel caso di specie, la marginalizzazione del dipendente, di fatto astrattamente riconducibile alla nozione di “mobbing”, sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, non può essere sussunta nella fattispecie incriminatrice di maltrattamenti in famiglia in quanto – secondo la sentenza in rassegna, la modulazione del rapporto tra maltrattante e matrattato, avuto riguardo alla ratìo della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, poiché è soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione, attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti.
Ciò premesso, ed è questo l’aspetto di notevole interesse, gli Ermellini ritengono che l’impugnata sentenza non ha considerato che le condotte mobbizzanti hanno causato lesioni consistite in “disturbo dell’adattamento, reazione depressiva prolungata da problemi sul lavoro”, comportante un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a giorni quaranta, condizione psichica cronicizzatasi in un disagio permanente. “L’impugnata pronuncia, dunque, pur avendo escluso la sussistenza del reato di maltrattamenti, non poteva certo pretermettere la valutazione della rilevanza di condotte – emergenti, peraltro, dalla stessa ricostruzione del compendio storico-fattuale – idonee a configurare altre fattispecie di rilievo penale, che come tali dovevano comunque essere prese in considerazione nell’ambito della cognizione di merito”.
L’epilogo decisorio lascia intravedere come, in conclusione, la mancanza nell’ordinamento giuridico italiano di un delitto ad hoc per reprimere le vessazioni sul lavoro, comporta una tutela frammentata del mobbing in sede penale. Una tutela nella quale la giurisprudenza riconosce la rilevanza penale di alcune manifestazioni del fenomeno in analisi, riconducendolo a fattispecie già esistenti all’interno del codice penale (ad esempio, violenza privata, lesioni personali, estorsione, abuso d’ufficio, violenza sessuale, atti persecutori, etc.). Una tutela che si vede sprovvista nelle strutture aziendali di grandi dimensioni proprio della fattispecie maggiormente aderente a reprimere il mobbing: quella dei maltrattamenti.
Nelle grandi aziende, caratterizzate da una realtà organizzativa complessa ed articolata, precisano i Giudici di legittimità, è difficile parlare di mobbing: infatti, tale fattispecie è costruita a livello di giurisprudenza (infatti non vi è riscontro nel diritto positivo del fenomeno del mobbing) tramite il rinvio all’articolo 572 del codice penale, norma che incrimina il reato di maltrattamenti in famiglia. Orbene, se per definizione, i maltrattamenti in famiglia possono esservi solo in luoghi caratterizzati dal tratto della familiarità, che ricorre solo nei piccoli contesti lavorativi, per esempio nel rapporto che lega il collaboratore domestico alla famiglia presso cui è impiegato, ciò non toglie che, escluso il delitto di maltrattamenti, non possano configurarsi comunque altri reati: nel caso di specie il lavoratore era stato messo nell’angolo dai superiori: in un primo momento aveva un incarico di responsabilità, poi era stato preso di mira ed emarginato progressivamente fino ad essere confinato in uno sgabuzzino spoglio e sporco. La vittima aveva patito la situazione al tal punto da ammalarsi, e gli era stato diagnosticato un disturbo dell’adattamento.

Gli Inquilini del Palazzaccio hanno così ritenuto che l’accaduto integri una ipotesi di straining, una particolare forma di persecuzione ed emarginazione sul lavoro che si risolve nel mettere in condizione di inferiorità il dipendente, anche una tantum. Ed una volta escluso il reato ex art. 572 del codice penale, viene configurato il reato di lesioni personali volontarie con conseguente ed ineluttabile condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno patito ed eziologicamente riferibile a quel singolo episodio vessatorio da cui é «derivata la grave lesione» del lavoratore.

Ecco estendersi, dunque, la tutela giuridica anche alla condotta che, benché sguarnita dei requisiti della abitualità e continuità degli atti, e non necessariamente connotata da antigiuridicità, si concreti in una vessazione idonea a cagionare alla vittima un danno, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità, di valenza non certo neutra.

di Antonella Virgilio

Print Friendly, PDF & Email