Caso Orlandi. La Cassazione conferma l’archiviazione dell’inchiesta, verità negata

Barbara

Dopo 33 anni d’indagini, 6 indagati per concorso in omicidio e sequestro di persona, si chiude così un altro mistero italiano. Senza colpevoli.

Assenza di prove. Questa  la motivazione per cui la Procura ed il Tribunale di Roma hanno chiuso, lo scorso 6 maggio, uno dei casi più intricati e dibattuti della storia italiana. Dopo 33 anni d’indagini, volgono infatti al termine le ricerce di Emanuela Orlandi, vittima e protagonista di un giallo ricco di colpi di scena, da far invidia ad un romanzo ben scritto, ma con un’unica differenza di fondo: non sarà mai svelato il colpevole. È il 22 giugno 1983 quando Emanuela Orlandi scompare misteriosamente da Corso Rinascimento a Roma, dove attende il bus per tornare a casa. Sono circa le 19 e, conclusa la consueta lezione di musica. Emanuela contatta febbriccitante sua sorella: la Avon, nota marca di cosmesi, l’ha selezionata come rappresentante durante una sfilata prestigiosa, all’interno dell’atelier delle Sorelle Fontana. A conclusione di quella conversazione, nessuno sa più cosa ne sia stato della Orlandi, seppur negli anni sia stato ipotizzato il coinvolgimento di diversi soggetti: in primis della Santa Sede, accusata di un giro di prostituzione minorile (collegata addirittura alla diocesi di Boston); poi la partecipazione della criminalità organizzata e degli ambienti della movida romana, orchestrati dalla Banda della Magliana; spuntano persino rivendicazioni di matrice islamica, smentite. Quel mosaico d’indiziati avrebbe dovuto far riflettere scrupolosamente in ogni suo tassello. Come, per esempio, nel fatto che a distanza di qualche tempo dalla scomparsa della Orlandi, anche altre giovani sosterranno di essere state contattate da un uomo misterioso per la stessa offerta lavorativa, una proposta da cui la Avon si è però sempre estraniata, smentendone l’esistenza. Nell’arco di 30 anni non sono mancati avvistamenti, sospettati, segnalazioni anonime e tante, tantissime, piste su cui gl’inquirenti potevano districarsi nella risoluzione del caso. Un caso che, forse, di spunti per ulteriori indagini ne aveva fin troppi affinché le autorità ne approfondissero con criterio una sola: dal presumibile coinvolgimento del boss della Magliana, Renato De Pedis, e del suo autista Sergio Virtù, passando per la presenza scomoda e controversa di Monsignor Pietro Vergari, ex rettore della Basilica di Sant’Apollinare, a pochi metri dalla scuola di musica che la Orlandi frequentava. Si è ipotizzato persino il complottismo internazionale, sollevato dalle dichiarazioni di Marco Accetti, fotografo mitomane, e Ali Agcà, ex Lupo Grigio e attentatore di Papa Giovanni Paolo II nel 1981. Non sono mancati nemmeno casi precedenti, a consolidare una serialità nella scomparsa di adolescenti, come fu per Mirella Gregori poche settimane prima della Orlandi. Com’è possibile, allora, che non sia stato possibile risalire ai fautori del mistero? Come, che tutti questi spunti abbiano confuso le indagini a tal punto da chiuderle? Se alcune di queste piste hanno contribuito solo a gettare fumo negli occhi degl’inquirenti, alcune invece avrebbero potuto rappresentare una vera e propria chiave di volta nella risoluzione del giallo. Basti pensare che nel 2008 Sabrina Minardi, amante di Renatino De Pedis, ha raccontato agl’inquirenti che proprio il suo uomo avrebbe sequestrato la ragazza, cittadina vaticana, su richiesta di Marcinkus, all’epoca dei fatti presidente dello Ior, la banca vaticana, e l’avrebbe poi uccisa buttandone il corpo in un sacco dentro una betoniera a Torvaianica. Per quanto sia impossibile capire quali dinamiche si nascondano dietro la scomparsa di Emanuela Orlandi, ancor più difficile sarà accettare una giustizia negata, quella che dal 6 maggio vedrà chiusa definitivamente l’indagine, persa in un fascicolo che non vedrà mai più la luce. Così come la verità. La sesta sezione penale della Suprema Corte ha giudicato infatti inammissibile il ricorso della famiglia Orlandi contro l’archiviazione dell’indagine della Procura di Roma. Il fratello di Emanuela, Pietro, appena saputo della sentenza, ha ribasito la posizione della famiglia sul caso: “Nessun potere, per quanto forte sia, potrà fermare la verità, anche se rimarrà una sola persona a difenderla e a pretenderla”. Un potere che, però, ha lanciato la sua ombra sulla giustizia italiana, ancora una volta.

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