La ragionevole durata del giudizio

Antonella

La sentenza N. 1/2013 sull’equa riparazione anche in caso di ritardo nel giudizio sulla ragionevole durata del processo.

La Cassazione ha aperto l’anno con una buona notizia ai cittadini vittime della giustizia lumaca :

Equa riparazione dell’equa riparazione!

Corte di Cassazione – Sezione VI civile

Sentenza 2 gennaio 2013 n. 1

Il principio della «durata ragionevole del processo» ha trovato una prima affermazione nell’ordinamento Italiano con la ratifica della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, attraverso la Legge 4 agosto 1955 n. 848, che lo consacra nell’art. 6 «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti». Ma è assurto ad esplicita affermazione in Costituzione con la Legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 2, che lo ha espressamente inserito nell’art. 111.

Nel corpo del testo il Legislatore Costituzionale, dopo aver espressamente stabilito che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» e che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale», ha aggiunto, alla fine del 2° comma: «la legge ne assicura la ragionevole durata».

Il richiamo al connotato di “ragionevolezza”, che compare nella proposizione normativa, lascia intendere nitidamente che la durata del processo che il legislatore ordinario determina attraverso la disciplina processuale non può essere né eccessivamente dilatata nel tempo da non rendere effettiva la tutela giurisdizionale, né eccessivamente limitata nel tempo da non assicurare il pieno esercizio del diritto di difesa delle parti.

In quanto componente essenziale dell’effettività della tutela giurisdizionale e del diritto di difesa costituzionalmente garantiti, segue quale corollario indefettibile che la durata del processo in tanto risulta ragionevole in quanto non determini un’attenuazione o dell’effettività della tutela giurisdizionale o del diritto alla difesa delle parti.

Nell’ipotesi in cui il cittadino reputa leso un proprio diritto soggettivo o interesse legittimo chiede allo Stato di porvi rimedio attraverso il sistema giudiziario. In molti casi, purtroppo, si verifica, però, che i processi i quali dovrebbero tutelare le situazioni giuridiche compromesse, diventano inefficaci a causa delle lungaggini procedurali. Ed è proprio nell’ottica di ridurre il patimento subito dall’interessato e di consentirgli di richiedere un adeguato risarcimento che il 24 marzo 2001 è stata approvata in Italia la legge n. 89, meglio conosciuta come Legge Pinto. Il legislatore con tale intervento normativo ha inteso concedere al soggetto che ha visto i tempi del “suo” processo allungarsi oltre i termini massimi previsti, un’opportunità di indennizzo. E’ stata introdotta così la possibilità di esperire il ricorso per ottenere un ristoro per i danni causati dall’eccessiva lunghezza dei procedimenti giudiziari. La tutela giuridica nei casi di violazione del termine ragionevole di un processo, consente di valutare e condannare a un’equa riparazione l’Amministrazione Pubblica.

Uno strumento concepito contro gli estenuanti e ben risaputi tempi della Giustizia. Ma quale la soluzione nell’ipotesi, non remota, di disfunzionalità anche di tale strumento?

La Suprema Corte si esprime: “Sì” al risarcimento danni se anche il giudizio sull’equa riparazione dura troppo: due anni e non di più per il doppio grado del «giudizio Pinto» altrimenti lo stato sarà costretto a risarcire il cittadino per l’irragionevole durata della causa instaurata sull’equa riparazione.

La Cassazione ha così recentemente avuto modo di pronunciarsi in ordine all’applicabilità del procedimento disciplinato dalla legge n. 89 del 2001 ai procedimenti introdotti sulla base della legge stessa, per i quali deve ritenersi predicabile l’operatività del termine ragionevole di durata e del conseguente regime indennitario in caso di sua violazione.

“4 anni e 6 mesi, sono troppi anche per un giudizio sull’equa riparazione che non dovrebbe superare i due, Cassazione compresa”.

Lo ha stabilito con la 1° sentenza del 2013, riconoscendo, alla luce di un’accertata irragionevole durata del giudizio, al ricorrente 1.187 euro per il ritardo, rimarcando come alcuna differenza, può essere rilevata, rispetto ad un qualsiasi altro giudizio ordinario.

I Giudici Supremi hanno bocciato il giudizio della Corte di Appello di Perugia che, all’opposto, aveva ritenuto non esperibile il rimedio della legge 89/2001, in relazione a procedimenti afferenti alla violazione della durata ragionevole del processo, sulla base della considerazione che la Carta europea dei diritti dell’uomo non prevede un ristoro anche in caso di un contenzioso sulla legge Pinto durato troppo a lungo.

Per gli “Inquilini del Palazzaccio”, il giudizio di equa riparazione é “un ordinario processo di cognizione, soggetto, in quanto tale, alla esigenza di una definizione in tempi ragionevoli, esigenza questa tanto più pressante per tale tipologia di giudizi in quanto finalizzati proprio all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sé una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe eccentrico non riconoscere anche per i procedimenti ex lege n. 89 del 2001”.

Secondo le Eminenze Grigie, la citata legge non consente in alcun modo di distinguere i procedimenti di equa riparazione da quelli ai quali la medesima legge si applica, non vi è ragione, quindi, di sottrarli al regime di ragionevole durata che discende direttamente dalla Costituzione Italiana, da cui è tutelato quale diritto fondamentale.

Oltre ogni vocabolo altisonante impiegato nei Cataloghi dei Diritti, al di là di sia pur nobili formulazioni, della loro utilizzazione nel circuito degli specialisti e della fagocitazione operata dal sistema vigente, di fatto “infedele” allo spontaneo manifestarsi di ciò che intende tutelare, e pertanto bisognevole di un profondo ripensamento, resta un’aspra considerazione : la generica aspirazione ad una risposta “giusta” in” tempi ragionevoli” a controversie che possono essere di ampio spessore o minute, risulta si collocata tra i Valori Fondamentali della Nostra Magna Carta, tuttavia è vista a tutt’ora come un obiettivo da perseguire, che da sempre si è dovuto scontrare con sedimentate inidoneità organizzative, di fatto incapaci di individuare ed accogliere un modello ideale di processo. La verità è che esso, per com’è strutturato, presenta scansioni procedimentali che lasciano spazio a ridotte possibilità di accelerarne i tempi, rendendolo “fisiologicamente duraturo” nella normalità, qualora non sopraggiungano fattori endo/etero processuali, impedimenti, sospensioni, interruzioni, deputati a dilatarne a dismisura l’estensione temporale. Ed è evidente che anche il risultato più profittevole perde ogni vantaggio se arriva quando ormai è troppo tardi.

Nell’attesa di interventi che operativamente parlando possano introdurre meccanismi di migliore resa al fine di adeguare le attuali scansioni alle enunciazioni costituzionali, non può non rilevarsi come nonostante l’esperimento del ricorso ex art. 2 Legge Pinto e i principi giuridici dettati in materia dalla Cassazione, l’Italia non solo è in cronico ritardo nella liquidazione degli indennizzi, ma inoltre è il Paese in cui è costante la prassi di non eseguire automaticamente le decisioni in materia di equa riparazione per la violazione del termine di ragionevole durata dei processi. Pertanto, il cittadino è costretto ad intraprendere la lunga ed estenuante fase esecutiva volta al recupero delle somme concesse a titolo di equa soddisfazione, ineluttabilmente sottoponendosi ad ulteriori travagli giurisdizionali!

di Antonella Virgilio

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