Le regole della Mafia siciliana dalla voce di Buscetta

Antonella

Scampolo di storia di Cosa Nostra: le regole della Mafia siciliana dalla voce di Buscetta

Ordinanza-Sentenza nel procedimento penale contro Abbate Giovanni +706 (Antonino Caponnetto consigliere istruttore, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta giudici istruttori delegati).   Palermo, 8 novembre 1985, vol. n.5, pp. 808-829

Le conoscenze sull’organizzazione interna della mafia siciliana si debbono prevalentemente all’opera di Giovanni Falcone, primo magistrato che riuscì a rompere il muro di omertà su questo tema avvalendosi dell’ausilio di “pentiti” (il più importante dei quali Tommaso Buscetta, personalità di spicco nella Cupola Siciliana e sorta di “ufficiale di collegamento” con le famiglie di Cosa nostra americana), grazie alle nuove leggi in materia di pentitismo promulgate all’inizio degli anni ottanta. Assieme al collega Paolo Borsellino ha donato ai suoi successori una solida base di conoscenze che hanno aiutato a combattere la mafia efficacemente.

Nella sentenza si descrive con dovizia di particolari l’organizzazione di Cosa Nostra, secondo le testimonianze di Buscetta.

Tra le molte leggi non scritte che regolano il comportamento mafioso, vi è anche l’obbligo di dire sempre la verità allorché si parla fra “uomini d’onore” di questioni comuni.

Sulla base di quanto emerge dal lungo interrogatorio di Buscetta :

Cosa Nostra (questo il vero nome della mafia) è una organizzazione criminosa, unica ed unitaria, ben individuata ormai nelle sue complesse articolazioni, che ha sempre mantenuto le sue finalità delittuose.

Tale articolata organizzazione criminale è stata in grado di accrescere la sua virulenza e la sua pericolosità nel tempo giovandosi di una peculiare capacità di mimetizzazione nella società, di una tremenda forza di intimidazione derivante dalla inesorabile ferocia delle “punizioni” inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni criminosi, nonché dell’elevato numero e della statura criminale dei suoi adepti, avvalendosi di una caratteristica capacità di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle mutevoli esigenze dei tempi, elementi che sono riusciti ad imprimere quello straordinario spessore che ha consentito a questa organizzazione di esser sempre nuova e al tempo sempre uguale a sé stessa, rappresentando ciò una della ragioni più profonde della forza di tale singolare consorteria.

La vita di Cosa Nostra (la parola mafia è un termine letterario che non viene mai usato dagli aderenti a questa organizzazione criminale) è disciplinata da regole rigide non scritte ma tramandate oralmente, che ne regolamentano l’organizzazione e il funzionamento (“nessuno troverà mai elenchi di appartenenza a Cosa Nostra, né attestati di alcun tipo, né ricevute di pagamento di quote sociali”), e così riassumibili:

Cosa Nostra è organizzata come una struttura piramidale basata sulla“famiglia”, che rappresenta la cellula primaria di una struttura a base territoriale, deputata al controllo di una zona della città o un intero centro abitato da cui prende il nome.

La famiglia è composta da “uomini d’onore” o “soldati” coordinati, per ogni gruppo di dieci, da un “capodecina” ed è governata da un capofamiglia di nomina elettiva, chiamato anche “rappresentante”,  il quale è assistito da un “vice capo” e da uno o più “consiglieri”.
Qualora eventi contingenti impediscano o rendano poco opportuna la normale elezione del capo da parte dei membri della famiglia, la “commissione” provvede alla nomina di “reggenti” che gestiranno pro tempore la famiglia fino allo svolgimento delle normali elezioni.

L’attività delle famiglie è coordinata da un organismo collegiale, denominato “commissione” o “cupola”, di cui fanno parte i “capi-mandamento” e, cioè, i rappresentanti di tre o più famiglie territorialmente contigue.

La commissione è presieduta da uno dei capi-mandamento ed ha, con una sfera d’azione provinciale, il compito di assicurare il rispetto delle regole di Cosa Nostra all’interno di ciascuna famiglia e, soprattutto, di comporre le vertenze fra le famiglie.

Tali Commissioni sono insediate in ogni provincia della Sicilia, con a capo un organismo di coordinamento denominato “interprovinciale”,col compito di regolare gli affari riguardanti gli interessi di più province.

La strategia criminosa di Cosa Nostra è duplice: da una parte cerca di garantirsi il controllo del territorio in cui risiede, attraverso una imposizione fiscale alle attività commerciali e industriali della zona (il pizzo o racket) e la feroce e immediata punizione di chiunque osi contravvenire alle disposizioni che essa dirama, mentre dall’altra cerca di corrompere il potere politico ed i funzionari dello Stato attraverso l’offerta di denaro e voti, per ottenere l’impunità e una sponda all’interno del sistema, da poter usare a proprio vantaggio. Questo connubio di impunità e controllo garantisce ai mafiosi la possibilità di affrontare qualunque nemico, sia esso malavitoso o istituzionale, da una posizione di forza, sicuri di avere in ogni caso un rifugio protetto e degli amici a cui ricorrere.

Regola fondamentale di Cosa Nostra è l’assoluto divieto per l'”uomo d’onore” di fare ricorso alla giustizia statuale. Unica eccezione, secondo il Buscetta, riguarda i furti di veicoli, che possono essere denunziati alla polizia giudiziaria per evitare che l’uomo d’onore, titolare del veicolo rubato, possa venire coinvolto in eventuali fatti illeciti commessi con l’uso dello stesso; naturalmente, può essere denunciato soltanto il fatto obiettivo del furto, ma non l’autore.

Quanto alle regole che disciplinano l’ “arruolamento” degli “uomini d’onore” ed i loro doveri di comportamento.

I requisiti richiesti per l’arruolamento sono: salde doti di coraggio e di spietatezza (si diviene ad esempio “uomo d’onore” dopo avere ucciso); una situazione familiare trasparente (secondo quel concetto di “onore” tipicamente siciliano, su cui tanto si è scritto e detto) e, soprattutto, assoluta mancanza di vincoli di parentela con “sbirri”.

La prova di coraggio ovviamente non è richiesta per quei personaggi che rappresentano, la cosiddetta “faccia pulita” della mafia e cioè professionisti, pubblici amministratori, imprenditori che non vengono impiegati generalmente in azioni criminali, ma prestano utilissima opera di fiancheggiamento e di copertura in attività apparentemente lecite.

Il soggetto in possesso di questi requisiti viene cautamente avvicinato per sondare la sua disponibilità a far parte di un’associazione avente lo scopo di “proteggere i deboli ed eliminare le soverchierie”. Ottenutone l’assenso, il neofita viene condotto in un luogo defilato dove, alla presenza di almeno tre uomini della famiglia di cui andrà a far parte, si svolge la cerimonia del giuramento di fedeltà a Cosa Nostra. Egli prende fra le mani un’immagine sacra, la imbratta con il sangue sgorgato da un dito che gli viene punto, quindi le dà fuoco e la palleggia fra le mani fino al totale spegnimento della stessa, ripetendo la formula del giuramento che si conclude con la frase: “Le mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò fede al giuramento”.
Lo status di “uomo d’onore”, una volta acquisito, cessa soltanto con la morte: il mafioso, quali che possano essere le vicende della sua vita, e dovunque risieda in Italia o all’estero, rimane sempre tale.

L’ “uomo d’onore”, dopo avere prestato giuramento, comincia a conoscere i segreti di Cosa Nostra e ad entrare in contatto con gli altri associati.

In ogni caso, le conoscenze del singolo “uomo d’onore” sui fatti di Cosa Nostra dipendono essenzialmente dal grado che lo stesso riveste nell’organizzazione, nel senso che più elevata è la carica rivestita, maggiori sono le probabilità di venire a conoscenza di fatti di rilievo e di entrare in contatto con “uomini d’onore” di altre famiglie.

Ogni “uomo d’onore” è tenuto a rispettare la “consegna del silenzio”: non può svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia, né, tanto meno, i segreti di Cosa Nostra. E’ forse, questa la regola più ferrea di Cosa Nostra, quella che ha permesso all’organizzazione di restare impermeabile alle indagini giudiziarie e la cui violazione è punita quasi sempre con la morte.

All’interno dell’organizzazione, poi, la loquacità non è apprezzata: la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile e l’ “uomo d’onore” deve astenersi dal fare troppe domande, perché ciò è segno di disdicevole curiosità ed induce in sospetto l’interlocutore.

Quando gli “uomini d’onore” parlano tra loro, però, di fatti attinenti a Cosa Nostra hanno l’obbligo assoluto di dire la verità e, per tale motivo, è buona regola, quando si tratta con “uomini d’onore” di diverse famiglie, farsi assistere da un terzo consociato che possa confermare il contenuto della conversazione. Chi non dice la verità viene chiamato “tragediaturi” e subisce severe sanzioni che vanno dalla espulsione (in tal caso si dice che l’ “uomo d’onore è posato”) alla morte.

Così, attraverso le regole del silenzio e dell’obbligo di dire la verità, vi è la certezza che la circolazione delle notizie sia limitata all’essenziale e, allo stesso tempo, che le notizie riferite siano vere.

Questi concetti sono di importanza fondamentale per valutare le dichiarazioni rese da “uomini d’onore” e, cioè, da membri di Cosa Nostra e per interpretarne atteggiamenti e discorsi. Se non si prende atto della esistenza di questo vero e proprio “codice” che regola la circolazione delle notizie all’interno di “Cosa Nostra”, non si riuscirà mai a comprendere come mai bastino pochissime parole e perfino un gesto, perché uomini d’onore si intendano perfettamente tra di loro.
Così, ad esempio, se due uomini d’onore sono fermati dalla polizia a bordo di un’autovettura nella quale viene rinvenuta un’arma, basterà un impercettibile cenno d’intesa fra i due, perché uno di essi si accolli la paternità dell’arma e le conseguenti responsabilità, salvando l’altro.
E così, se si apprende da un altro uomo d’onore che in una determinata località Tizio è “combinato” (e, cioè, fa parte di Cosa Nostra), questo è più che sufficiente perché si abbia la certezza assoluta che, in qualsiasi evenienza ed in qualsiasi momento di emergenza, ci si potrà rivolgere a Tizio, il quale presterà tutta l’assistenza necessaria.

Anche la “presentazione” di un uomo d’onore è puntualmente regolamentata dal codice di Cosa Nostra, allo scopo di evitare che nei contatti fra i membri dell’organizzazione si possano inserire estranei.

E’ escluso, infatti, che un “uomo d’onore” si possa presentare da solo, come tale, ad un altro membro di Cosa Nostra, poiché, in tal modo, nessuno dei due avrebbe la sicurezza di parlare effettivamente con un “uomo d’onore”. Occorre, invece, l’intervento di un terzo membro dell’organizzazione che li conosca entrambi come “uomini d’onore” e che li presenti tra loro in termini che diano l’assoluta certezza ad entrambi dell’appartenenza a Cosa Nostra dell’interlocutore. E, così, è sufficiente che l’uno venga presentato all’altro, con la frase “Chistu è a stissa cosa“, (questo è la stessa cosa), perché si abbia la certezza che l’altro sia appartenente a Cosa Nostra.

Il mafioso, come accennato, non cessa mai di esserlo quali che siano le vicende della sua vita.
L’arresto e la detenzione non solo non spezzano i vincoli con Cosa Nostra ma, anzi, attivano quell’indiscussa solidarietà che lega gli appartenenti alla mafia: infatti gli “uomini d’onore” in condizioni finanziarie disagiate ed i loro familiari vengono aiutati e sostenuti, durante la detenzione, dalla “famiglia” di appartenenza; e spesso non si tratta di aiuto finanziario di poco conto, se si considera che, come è notorio, “l’uomo d’onore rifiuta il vitto del Governo” e, cioè, il cibo fornito dall’amministrazione carceraria, per quel senso di distacco e di disprezzo generalizzato che la mafia nutre verso lo Stato.

Unica conseguenza della detenzione, qualora a patirla sia un capo famiglia, è che questi, per tutta la durata della carcerazione, viene sostituito dal suo vice in tutte le decisioni, dato che, per la sua situazione contingente, non può essere in possesso di tutti gli elementi necessari per valutare adeguatamente una determinata situazione e prendere, quindi, una decisione ponderata. Il capo, comunque, continuando a mantenere i suoi collegamenti col mondo esterno, è sempre in grado di far sapere al suo vice il proprio punto di vista, che però non è vincolante, e, cessata la detenzione, ha il diritto di pretendere che il suo vice gli renda conto delle decisioni adottate.

Durante la detenzione è buona norma, anche se non assoluta, che l’uomo d’onore raggiunto da gravi elementi di reità non simuli la pazzia nel tentativo di sfuggire ad una condanna: un siffatto atteggiamento è indicativo della incapacità di assumersi le proprie responsabilità fino in fondo.

Tale peculiare aggregazione, retta dalla legge dell’omertà, del silenzio, dell’indissolubilità del vincolo e dei codici d’onore, si attualizza attraverso una organizzazione di potere che trae profitti da numerosi tipi di attività criminali e si alimenta dei proventi di attività illegali, con una strutturazione basata su un modello di economia statale, rispetto al quale resta parallela e sotterranea, ricavando la sua principale garanzia di esistenza nelle alleanze e collaborazioni con funzionari dello Stato, in particolare politici, nonché del supporto di certi strati di popolazione.

Riguardo a tale singolare fenomeno storico e antropologico, originariamente attecchito su territorio siculo, con diramazioni su scala mondiale non può non richiamarsi il pensiero di Giovanni Falcone  :“La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”.

Invero il fenomeno, mai definitivamente soppresso, ha potuto avvalersi negli anni di un certo rapporto di “connivenza” con numerosi elementi del Parlamento e uomini del Governo di cui si si è avuta eloquente conferma.

Lo stesso comportamento del CSM durante il lavoro di Giovanni Falcone che, inizialmente non ricandidò il giudice come presidente della commissione antimafia da lui creata, fa intendere una certa tendenza a voler ostacolare un lavoro diventato troppo scomodo per certi poteri!

Così nonostante non pochi “uomini d’onore” sono in atto detenuti e duri colpi sono stati inferti ai vertici di Cosa Nostra, per il permanere di quell’ibrido connubio tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere, la situazione attuale, malgrado le inchieste, i processi, le condanne,  non registra alcun trionfalismo, in quanto il declino della mafia, più volte ottimisticamente annunciato, non si è ad oggi verificato, e non è, purtroppo, nemmeno prevedibile.

di Antonella Virgilio

Print Friendly, PDF & Email