L’uomo che vide l’infinito

Tavani

L’ho abbiamo già scritto e questo film lo conferma: i nuovi grandi eroi del cinema sono gli scienziati, i fisici, i matematici. Dopo La teoria del Tutto sull’astrofisico Stephen Hawking e Imitation Game sul matematico Alain Turing, ecco un’altra vicenda scientifica, quella del matematico indiano Ramanujan, con il film L’uomo che vide l’infinito. La crescente egemonia della tecno-scienza si irradia anche sui piani dell’arte, della cultura, dell’immaginario e dell’inconscio collettivo. Sarebbe un errore, infatti, pensare che la scienza e le sue applicazioni tecnologiche sulla società si limitino all’ambito che classicamente le configura. No, esse non possono che estendersi necessariamente a tutto l’ambito esistenziale umano, fino a riconfigurarne nel profondo ogni assetto e dimensione, anche spirituale.

Questo film di Matt Brown ha proprio la particolarità di mettere in risalto l’aspetto spirituale, divino della matematica, in contrasto con quello logico, agnostico, materialistico della scienza occidentale. L’infinito è un concetto tanto matematico – espresso dal simbolo algebrico ∞ –, quanto filosofico e spirituale dell’umano. Grandi menti speculative dello stesso Occidente avevano nettamente colto tale estensione. Galileo Galilei afferma che il libro della natura è scritto nella lingua della matematica; Albert Einstein – nella sua polemica contro Niels Bohr – dice: “Dio non gioca a dadi con l’Universo”. Per la religione Dio è il Tutto che permea e dà significato a ogni singola cosa. Per il filosofo questa totalità può essere scevra da qualsivoglia aspetto divino e dare ugualmente senso materiale e spirituale a ogni parte, anche infinitesimale che la compone. Per il fisico, il matematico, il Tutto è l’infinito o l’illimitato della stessa seria numerica. Scienza e filosofia possono – e anzi, dovrebbero – fare a meno di Dio, e questo a prescindere dalle personali inclinazioni dei ricercatori.

Celebre il libro del fisico austriaco Fritjof Capra, Il Tao della fisica, del 1975, nel quale lo studioso mostra analogie profondissime tra la relatività e i quanti della fisica moderna e le antiche filosofie orientali dell’Induismo, del Buddhismo Mahāyāna, del taoismo e dello zen.

Qui vediamo proprio l’incontro-scontro tra un matematico ateo, agnostico, materialista come l’illustre professore G. H. Hardy, del Trinity College, e lo sconosciuto ma geniale contabile indiano Ramanuja. Questi ha delle intuizioni divine che lo conducono a scrivere di getto intere pagine di formule matematiche folgoranti per la loro verità e anche bellezza. Hardy, però, vuole da lui rigorose dimostrazioni, Ramanuja le considera delle mere perdite di tempo. Hardy crede solo in quello che si può toccare con il logos, la fredda ragione algebrica. Ramanuja, non è che non sappia fornirgli quelle dimostrazioni, ma per lui ogni numero, ogni formula, equazione, teorema ha un senso solo perché è espressione diretta del divino. Ed è una divinità a mettergli sulla punta delle dita, tra le labbra e negli occhi quelle complesse ma esattissime, stupende anche esteticamente espressioni algebriche.

Solo alla fine Hardy, e con lui l’Accademia, ossia l’Autorità scientifica costituita, è costretta ad accettare la logica divina di Ramanuja. Hardy arriva ad ammettere che le formule sono già scritte, al matematico sta il compito di svelarle. È un tema questo che già si trova nell’opera letteraria di Proust, nella sua sterminata Alla ricerca del tempo perduto. Il poeta lo scrittore non crea ma trova e svela, trascrive ciò che è già da sempre e per sempre scritto.

La stima reciproca, l’amicizia conflittuale tra Hardy e Ramanuja ci parla anche del conflitto, dello scontro tra l’Occidente egemone e le altre culture. Sebbene la cultura tecnico-scientifica sia un portato storico peculiare della nostra civiltà occidentale, questo non significa che essa continuerà ad avere necessariamente un potere esclusivo su essa. Lo scontro in atto tra Nord e Sud verte proprio sulla conquista del cuore tecno-scentifico del pianeta, ben oltre tradizioni, razze ed etnie. Ricordiamoci che un grande filosofo della scienza come Paul Fayerabend, con il suo Contro il metodo aveva – nel 1975 – già anarchicamente dissacrato la pretesa superiorità del metodo scientifico occidentale.

Dal punto di vista della forma cinematografica, il film presenta un impianto classico. Ci sarebbe da dire che questi film riguardano un’epoca pioneristica, epica della scienza moderna nello scenario bellico della prima metà del Novecento. In questo senso si potrebbe affermare che essi hanno il sapore della frontiera, in uno spazio ancora totalmente aperto, tipico del primo genere western. I nostri eroi combattono la loro battaglia scientifica – contro tutti gli assalti dei pregiudizi alla diligenza del progresso – per la conquista dell’intera comunità umana di una sua nuova tappa storica.

di Riccardo Tavani

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