Guardaci, questa è la vergogna europea

MartinaLe invisibili storie del Baobab Experience

“Guardaci, questa è la vergogna europea”. Robin me lo dice guardandomi negli occhi, senza rabbia. “Se tu vuoi, puoi spostarti lungo tutta l’Europa, perché sei europea. Perché io non posso? Perché è una colpa essere africano?” . Non so rispondergli e in un istante ho come la sensazione che tutte le ingiustizie del mondo mi si siano parate di fronte, in quella tenda sporca piantata in via Cupa. Del centro Baobab ogni tanto i giornali raccontano qualcosa. Ci dicono che è un centro per migranti in transito, ci mostrano le foto dei ragazzi ammassati nelle tende, dei bambini che percorrono scalzi quel tratto di Via Tiburtina, ci fanno ascoltare le voci dei volontari che continuano a chiedere, senza ricevere risposte. Appena qualche giorno fa l’ennesima stroncatura. L’Assessore alle politiche sociali di Roma, Laura Baldassarre boccia la richiesta di allestimento di una tendopoli che avrebbe permesso a 150 dei 300 migranti attualmente sistemati in Via Cupa, di ottenere un alloggio più dignitoso. Una soluzione perfettamente in linea con quanto già attuato nelle maggiori città europee, ma nulla. Niente da fare anche per la proposta riutilizzo dell’ex centro ittiogenico, una struttura in stato di abbandono per la quale lo scorso dicembre era stato già presentato un progetto di ristrutturazione a basso costo, anch’esso andato in fumo. Notizie che ci arrivano dai giornali come voci lontani, ci sfiorano e se ne vanno.
Io al Baobab non ero mai stata finora. Oggi, forse, capisco un po’ meglio quell’Experience. L’esperienza è ciò che ci manca per comprendere cosa significhi accogliere, rispettare, aiutare. Siamo talmente abituati a sentir parlare di migranti, di morti in mare che per noi queste persone non hanno un volto né una storia.
Arrivare a Via Cupa è come ricevere un pugno in faccia dalla realtà. Accanto a noi, che sfrecciamo nelle nostre macchine urlando con l’orecchio attaccato a un telefono ultima generazione, a noi tanto impantanati nell’opulenza da non saper più distinguere un lusso da un bisogno c’è l’immagine di un fallimento che ci appartiene.
Decine e decine di tende in cui giovani e meno giovani, bambini, neonati, donne incinte trascorrono le giornate segregati, sperando che non piova, sperando che il cibo basti per tutti, che la salute li assista, che, prima o poi, possano partire.
Lascio la mia busta ai volontari, sempre presenti. Cerco di intavolare un discorso con uno di loro, ma mi accorgo che c’è davvero tanto da fare e il tempo non è sufficiente per perdersi in chiacchiere. Lo saluto e mi avvio tra le tende. Dopo un paio di tentativi andati non troppo bene, incontro finalmente un gruppetto di ragazzi che conosce l’inglese. Gli spiego che sto preparando un articolo, che vorrei intervistarli, vorrei sentire la loro storia.
Sono in 4, tre ragazzi e una ragazza. Robin si presenta subito, ha 19 anni ed è bello, bellissimo. Se avesse fatto le scuole qui metà delle ragazzine della sua età gli avrebbero fatto il filo. Se lo incontrassero qui con ogni probabilità nessuna gli rivolgerebbe la parola. È disposto a rispondere a qualsiasi domanda, me lo dice subito. Io accendo il registratore ma mi rendo conto che qualcosa non va. La ragazza non è tranquilla, vorrebbe intervenire, ha qualcosa da dire ma si trattiene. Quando la invito ad unirsi alla conversazione mi gela. “ Io rispondo alle tue domande, rispondo alle domande di tutti. Voi venite qui e ci chiedete di fare una foto, fate qualche domanda e poi? Noi rispondiamo alle vostre domande e voi cosa fate per noi. Sono stanca delle vostre domande, guardaci!”. “Questa è la vergogna europea”, aggiunge Robin, mentre lei se ne sta già andando dalla tenda. La osservo andar via di spalle mentre una bambina di un anno, o poco più, gattona nuda sull’asfalto e ride.
Il registratore è rimasto fermo a quella frase di Robin, cacciato nel fondo della borsa per far spazio ad una vita che non c’entra niente coi giornali né con le interviste. Dopo neanche mezz’ora quei ragazzi mi trattano come un’amica e mi sento fortunata. Vengono tutti dall’Etiopia, il più grande ha 22 anni. Non riesco a ricordare i loro nomi, troppo difficili da pronunciare per me, e un po’ me ne vergogno. Lo capiscono e per aiutarmi mi chiedono di ribattezzarli con un nome italiano. Mustafà il suo, però, se l’è voluto scegliere da solo. “Nicola, mi piace Nicola”. Due di loro sono in partenza per Milano, ma sognano la Francia. Sara – che nel frattempo è tornata da noi- vuole raggiungere il fidanzato a Parigi. Mi racconta che vorrebbe studiare e lavorare come me, vuole scusarsi per essersene andata. “Sei molto bella e sei una brava persona”, mi dice. Mi chiedo in che modo potrei scusarmi io con lei per tutte le volte che ognuno di noi passa di lì e non le parla. Per ogni volta che guardiamo lei e chi vive quella sua stessa esperienza come un nemico. Per quando non siamo in grado di allargare le braccia e di pensare che è come dice Robin: “Tutti siamo potenzialmente migranti”. Robin è quello che ci tiene di più a parlarmi. Pare abbia degli amici in Inghilterra, ma non sa neanche in quale città. Sorride sempre e quando non sorride ha un aspetto fiero, lo sguardo sveglio e intelligente. In questi due mesi a Roma non è riuscito a conoscere nessun italiano eccetto i volontari del centro. “Quando sono sull’autobus non capisco quello che le persone dicono di me, ma ho la sensazione che non siano cose belle. Non mi sento accettato”. Vorrebbe imparare l’italiano. “Se imparo l’italiano forse riesco a lavorare e allora mi piacerebbe restare anche qui”. Quando gli spiego quello che studio all’Università cambia faccia. “Ma allora puoi insegnarmi?”, alla mia risposta, però, non ci crede. Sa che troppo spesso in posti come quello la gente va a lavarsi la coscienza e poi chi s’è visto s’è visto. Quando il sole cala stiamo ascoltando un cantante etiope che evidentemente deve essere molto in voga tra i ragazzi. Non so come salutarli, non so cosa augurargli e temo in qualsiasi modo di essere fuori luogo. “Professoressa Martina, torni per insegnarmi?”, “Certo Robin, ma non sarà possibile tutti i giorni”. Mi accompagnano fino alla macchina, passando davanti ad una fila di bagni fetidi. “Noi dobbiamo usarli”, mi dice Nicola- Mustafà e scoppia a ridere. Mi accorgo solo in questo momento di una terribile cicatrice che gli gira intorno al collo. Via Cupa rimane alle spalle mentre ci abbracciamo. Non so se sperare di rivederli o di non rivederli mai più. Stanotte ha diluviato e mi chiedo quanto acqua ancora batterà sulle teste dei ragazzi del Baobab.

Di Martina Annibaldi

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