I cafoni di oggi

I “cafoni” di cui parlava Ignazio Silone, erano i braccianti abruzzesi che vivevano nella valle del Fucino. Per lo scrittore, i contadini che lavoravano la terra si assomigliavano sempre, a prescindere da latitudine e epoca. Ad accomunarli erano le ingiustizie subite. Ingiustizie così ancestrali, da avere “la stessa naturalezza della pioggia, del vento, della neve”. Quegli stessi soprusi e quelle medesime umiliazioni persistono tuttora. E come per quelli di Silone, anche i cafoni di oggi rimangono nel buio, invisibili.
430.000 persone sono vittime di caporalato in Italia. Un altro dato è significativo: secondo la Walk Free Foundation, nel nostro paese vivono ben 129.600 persone in condizione di schiavitù, collocando così l’Italia al penultimo posto tra i paesi Europei per numero assoluto.
Quello del caporalato e dello sfruttamento non è affatto un’emergenza. Rappresenta la normalità in molti settori agricoli (anzitutto quello dei pomodori). Il caporale reperisce la manodopera da portare sui campi e ottiene somme di denaro dai braccianti, spesso con minacce e abusi. Una zona d’ombra di totale assenza di diritto.
Ad Agosto il Senato ha approvato un disegno di legge sul tema, che dovrà ora passare alla camera. Il testo, che va a modificare la legge sul caporalato del 2011, è un passo in avanti. Introduce la responsabilità anche dei datori di lavoro e la confisca dei beni. Eppure, nonostante i meriti, alcuni dubbi rimangono legittimi. Può davvero bastare una legge ad eliminare un problema che non è affatto un caso limite? E, soprattutto, quanto è efficace una buona legge specifica, se parallelamente il resto della normativa sul mercato del lavoro va nella direzione opposta, ovvero in quella di minore diritti? Non esiste una soluzione facile per un problema che deriva da un sistema complesso di molteplici cause. Per semplificare, però, si potrebbe posare lo sguardo su due aspetti in particolare. Da una parte il problema su cui intervenire non sono i caporali. Questi, spesso, costituiscono un vero e proprio meccanismo mafioso, ma non è tanto la crudeltà a spingerli. Quello che li muove è il profitto. Il problema nasce da una globalizzazione del peggior tipo, in cui il grande schiaccia il piccolo. Un economia che non crea ricchezza ma rendite e aumenta le disuguaglianze. E allora, oltre ai produttori, una qualche responsabilità dovrebbero avercela anche i grandi distributori, ai quali va la maggior parte del guadagno e che spesso mancano di trasparenza.
L’altro aspetto, invece, riguarda lo stretto rapporto tra caporalato e le estreme condizioni di vita dei lavoratori, costretti a vivere in veri e proprio ghetti. La Regione Puglia ha annunciato la chiusura dell’ormai famoso Ghetto di Rignano. Però la realtà è che pur sgombrando un ghetto, uno nuovo verrà aperto altrove. Il governo fin’ora ha promesso soldi mai arrivati per un piano di riallocazione; eppure la soluzione non dovrebbe venire dai soldi dei contribuenti, ma dagli stipendi di lavoro, ritornando così ad una situazione di regolarità. Ma ciò non avverrà senza una vera integrazione degli immigrati che assicuri loro i diritti di base. Senza questi, non potranno ottenere il necessario potere contrattuale nei confronti degli imprenditori e rimarranno facili prede d’interessi più grandi.
Un tempo molti pensavano che la storia seguisse una linea retta che avrebbe portato inesorabilmente al progresso. La realtà, invece, ci ricorda che niente è scontato, neppure i diritti che si pensavano ormai acquisiti. I diritti, purtroppo, non si conquistano una volta per tutte ma occorre tutelarli e riaffermarli continuamente.

di Pierfrancesco Zinilli

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