Privacy anche in rete

Antonella

Violazione della Privacy : per la Cassazione è reato pubblicare in Rete il numero del cellulare altrui.

PRIVACY ANCHE IN RETE “ – Chi diffonde in una chat aperta il numero di telefono di una persona, ottenuto in occasione di un colloquio privato infrange l’articolo 167 della legge 196/2003 sulla privacy. La pena, in questi casi, può arrivare anche a quattro mesi di reclusione. Lo ha chiarito la Cassazione, in una sentenza della terza sezione penale risalente al 1° giugno 2011.

Attenzione dunque a diffondere numeri di telefono altrui su chat e social network: è reato e si rischia il carcere!

La Suprema Corte ha sancito che è proibito rendere noto finanche il numero di utenza del cellulare. Non vale la distinzione tra persone fisiche e persone giuridiche: chiunque è tenuto a rispettare le norme previste dal Codice della privacy in materia di trattamento dei dati sensibili. E nel concetto di dato personale si fa rientrare “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”.

Secondo la Corte anche chi non è istituzionalmente depositario della tenuta dei dati sensibili, come le aziende che fanno firmare l’apposito modulo per il trattamento delle informazioni personali, ma è venuto a conoscenza di queste informazioni in via occasionale rientra nel gruppo dei soggetti che la legge considera titolari del trattamento. Il riferimento è all’articolo 4 del Codice della privacy che parla espressamente di persona fisica, persona giuridica, Pubblica Amministrazione e qualsiasi altro ente cui competono, anche unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento di dati personali e agli strumenti utilizzati.

Stop dunque a chi diffonde il numero di telefono altrui su Facebook, Twitter, Messenger, Windows Live,  Badoo, Espace  Net, o su altri programmi che prevedono chiacchierate virtuali.

Il caso di specie si riferisce a un uomo che aveva fatto circolare in rete il cellulare di un’altra persona. In primo grado il tribunale di Milano si era espresso per una condanna di quattro mesi, poi sospesa con la condizionale. La Corte d’appello ha confermato la sentenza e in ultimo grado la Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso presentato dai legali del frequentatore della chat-line consacrando la severa sanzione penale inflittagli.

Con sentenza n. 21839 depositata l’1 giugno 2011 i giudici della Suprema Corte hanno così stabilito che l’inserirmento in una chat-line pubblica del numero di cellulare di soggetti terzi integra il reato di “trattamento illecito di dati personali” di cui all’art. 167 della legge 196/2003 (cd. “Codice della privacy”).

Tale normativa per trasposizione nel nostro ordinamento di un’analoga norma di cui all’art.8 della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” (cd. “Carta di Nizza”), codifica il diritto di ogni persona alla protezione dei dati che la riguardano affinché ne sia garantita l’integrità e la riservatezza entro ben definiti limiti di accessibilità e disponibilità.

Tale diritto nasce in un particolare contesto storico, in cui il patrimonio informativo di ciascuno è tendenzialmente un patrimonio “circolante”, destinato ad essere sottoposto ad uso da parte di altri soggetti e per le finalità più varie.

Di qui l’esigenza di tutelarlo adeguatamente sotto ogni punto di vista: una vera e propria tutela a 360 gradi, e da un punto di vista civilistico, e da un punto di vista penalistico, e da un punto di vista pubblicistico-amministrativo.

Il reato sarà configurabile in ogni caso pur in presenza di comportamenti diversi dal punto di vista naturalistico, pur tuttavia espressivi di un disvalore omogeneo, come tale avvertito dal contesto sociale e tradotto legislativamente in termini di antigiuridicità/illiceità.

Da un punto di vista strutturale l’elemento oggettivo del reato e dunque la condotta, consiste nel “trattare illecitamente” dati personali. Ex art.4, I co., lett.a del Cod. Priv. è da intendersi per trattamento “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”. Definizione, dunque, quanto mai ampia e di fatto onnicomprensiva.

Soggetto attivo del reato è “Chiunque”.

In particolare, i giudici della Terza Sezione Penale hanno spiegato che l’assoggettamento alla norma in tema di divieto di diffusione di dati sensibili riguarda tutti indistintamente i soggetti entrati in possesso di dati, i quali saranno tenuti a rispettare sacralmente la privacy di altri soggetti con i primi entrati in contatto, al fine di assicurare un corretto trattamento di quei dati senza arbitrii o pericolose intrusioni.

Tutti i soggetti infatti sono tenuti al rispetto della norma sui dati sensibili, o meglio tutti quei soggetti che sono entrati in possesso di tali dati, pertanto questi dovranno avere rispetto della privacy di soggetti terzi adoperando quelle informazioni in maniera corretta e non violativa della loro sfera.

Né la punibilità può dirsi esclusa se il soggetto detentore del dato abbia ciò acquisito in via casuale, in quanto la norma non punisce di certo il recepimento del dato, quanto la sua indebita diffusione. Ne consegue che la diffusione in ambito generalizzato di un numero di utenza cellulare, per sua intrinseca natura riservato è certamente produttiva di danno: pertanto nel caso all’attenzione della Corte, si è ritenuto configurabile il suddetto reato.

Nel caso di specie, in cui era stato divulgato su una chat-line pubblica un numero di cellulare di un privato cittadino, di cui l’autore del reato era venuto in possesso nel corso di una conversazione virtuale, l’acquisizione non è stata casuale, per essergli il numero stato fornito dall’interlocutore, mentre la diffusione indebita, concretatasi in una comunicazione “indesiderata”, con determinazione a far veicolare il numero su altri canali, è stata certamente voluta al fine di provocare un danno, compromettendo la riservatezza che il legislatore intende proteggere. Ciò indipendentemente dal tempo di stazionamento del messaggio nella chat – line, contenente il “post” con il recapito “incriminato”, stante la possibilità per chiunque di prendere cognizione di un dato riservato e suscettibile di vulnerare una sfera assolutamente intangibile.

Infatti per la Cassazione “la diffusione in ambito generalizzato di una utenza cellulare è certamente produttiva di un danno”, essendo il telefonino “per sua natura intrinseca riservato, tant’è che non compare neppure negli elenchi pubblici nei quali figura solo il numero telefonico pubblicabile e mai quello di un’utenza cellulare a meno che il suo titolare non vi abbia consentito”. Corte di Cassazione Sezione 3 Penale, Sentenza del 1 giugno 2011, n. 21839.

Per quel che concerne l’elemento soggettivo, il delitto di cui all’art.167 Cod. Priv. è delitto doloso, precisamente a dolo specifico. Ergo necessita, ai fini del giudizio di colpevolezza, la rappresentazione e la volontà non solo della condotta, ma anche dello specifico scopo della stessa, e precisamente del “fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno”.  Orbene, “Danno” è da intendersi latu sensu come lesione di una situazione giuridica soggettiva altrui, rilevante per l’ordinamento, sia essa a carattere morale o affettivo, sia essa a carattere strettamente economico o patrimoniale. “Profitto” è invece nozione indubbiamente più problematica. Certamente essa incorpora in sé il concetto di “lucro”, ma è di quest’ultimo più ampia. A tal proposito la Cassazione ha ben provveduto a marcare il confine tra le due nozioni: quella di “scopo di lucro” è più specifica di quella di “scopo di profitto”, poiché “lucro” è solo e soltanto un vantaggio in termini meramente patrimonialistico-pecuniari, un surplus, un aumento di ricchezza del patrimonio strictu sensu. “Profitto”, invece, è un qualsivoglia “giovamento, vantaggio, beneficio, sia pratico, sia intellettuale o morale”. Dunque, il fine di profitto comprende in sé quello di lucro, ma ha portata più ampia: guadagno netto, ma anche risparmio di spesa o contenimento di costi, finanche un qualsiasi giovamento intellettuale, estetico, culturale, morale etc.  Con la precisazione che la previsione di una intenzionalità specifica determina la necessità che quel determinato scopo sia voluto, anche se non è necessario che tale scopo venga poi effettivamente raggiunto, essendo il reato perfetto ed esistente non appena sia posta in essere la condotta necessaria e sufficiente per conseguirlo.

L’interesse protetto, ovvero il bene giuridico tutelato è il diritto alla protezione dei dati personali, al controllo degli stessi e di quel flusso di informazioni che riguardano la propria persona, nell’ambito della più generale tutela della dignità, della riservatezza e dell’identità personale.

La privacy latu sensu ha così una collocazione fluttuante a cavallo di tutte le grandi aree di protezione della persona e concepita a presidio di attributi primi ed irrinunciabili che le conferiscano lo statuto di fine e mai di mezzo, che valga a scolpire un ruolo di centralità del principio personalistico non suscettibile di strumentalizzazioni di sorta.

La dignità, quale diritto inviolabile, che si configura essenzialmente come presupposto del più ampio ed esplicito riconoscimento della persona in quanto tale, non solo nella sua dimensione eminentemente soggettiva, ma altresì nella sua proiezione in tutti i contesti relazionali, nella “socialità” della sua esplicitazione, che si pone come essenziale sul piano valoriale dinamicamente inteso e che è dovere di ogni potere statale rispettare e proteggere, assegnando una posizione privilegiata alla salvaguardia della intangibilità degli aspetti più significativi della sfera intima e privata.

La riservatezza, come diritto ad esser lasciati soli ed in pace, alla protezione della propria vita privata dalla curiosità e delle indebite intrusioni e manipolazioni da parte di terzi.

E, ancora, l’identità personale, come diritto ad “essere se stessi”, ad essere cioè individui unici ed irriducibili in qualsivoglia contesto o ambiente, con la propria personalità, con la propria cultura, con la propria visione della società, con le proprie idee etiche, filosofiche, religiose, politiche senza che sia lecito a terzi alterare o travisare o volgere a proprio tornaconto tale inconfondibile substrato di valori.

L’interesse protetto, non è solo ‘strumentale’ o formale cioè, in un reato di mera disobbedienza, posto a presidio della tutela penale di disposizioni normative quale rimedio ordinamentale volto al riequilibrio di un interesse privato violato per l’assenza della manifestazione di volontà dei soggetti interessati o per contrasto con gli indirizzi dell’Autorità di garanzia, ma, da ricondurre al generale profilo della riservatezza e nel quadro della nozione più ampia di “trattamento” riferendosi ad ogni attività inquadrabile nella rilevazione, nella catalogazione e nell’utilizzo di dati, in qualsiasi forma, purché produttiva di un risultato informativo coerente e significativo in contrasto con gli interessi protetti della riservatezza e dell’identità personale cioè della privacy, intesa nella duplice valenza positiva e negativa quale libertà di escludere l’indiscriminato accesso di terzi ai dati personali e libertà di garantire all’interessato il controllo della correttezza e non eccedenza del trattamento al fine di salvaguardare l’identità personale, non suscettibile di esposizione senza il consenso dell’interessato.

Nel caso esaminato dalla Corte i dati personali sarebbero stati  esposti alla pubblica consultazione e comunque ad una comunicazione e diffusione sistematica, in quanto inseriti in un sito Internet che è per sua natura “aperto”, accessibile ad un qualsivoglia utente della rete, ad un qualsiasi cybernauta e così dicasi, in via analogica, anche per l’indicazione sullo stesso sito di un account di posta elettronica. Un sito Internet è senza dubbio strumento idoneo alla diffusione e comunque alla comunicazione non episodica e non saltuaria di dati e informazioni.

Ancora un’importante decisione della Corte di Cassazione, dunque, degna di nota per quel che concerne il controverso rapporto tra diritti della persona e le nuove tecnologie e delle minacce che le stesse possono arrecare a beni giuridicamente rilevanti per l’ordinamento, la cui insidiosità è sempre più incalzante.

Vero è che l’uomo contemporaneo, non è certo, né può essere un’isola, e che dunque deve potersi relazionare con gli altri, ma è ben conscio altresì del fatto che uno “spazio”, primariamente e imprescindibilmente “intangibile”, gli è dovuto.

Un ambito, seppur minimo, assolutamente “privato”, libero da ingerenze altrui, lontano soprattutto dall’imperante “voyeurismo tecnologico” e che non può rassegnarsi a vedere espropriato in una proiezione spaziale della persona umana, i cui diritti sono  degni di essere tutelati, garantiti e protetti in qualsivoglia luogo o circostanza, anche e  soprattutto in un mondo come quello di Internet già di per sé “anarchico” e talora sguarnito di regole che, però, non può per ciò stesso divenire strumento di ulteriori attività illecite e penalmente rilevanti che si aggiungano a quelle che già quotidianamente vengono realizzate con capacità lesiva in tempo reale.

di Antonella Virgilio
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