Alle Olimpiadi vince la pace.

Baroncini

“I would like to represent my country in the Olympic Games, but when the war is finished” – South Sudanese refugee Rose

Quando Pierre De Coubertin rimise mano alle Olimpiadi moderne, andandosele a ripescare in un passato remotissimo, quello che aveva in mente era un evento sportivo di portata mondiale che consentisse a gente giovane, proveniente da ogni dove, di trovarsi insieme in nome dello sport. E fece leva sull’idea di partecipazione. L’importante-disse- non è vincere, ma partecipare. Ma ad un atleta greco dell’antica Olimpia, di quel luogo di culto rimasto sepolto per secoli, mai sarebbe venuto in mente un pensiero simile. Perché alle Olimpiadi dell’antichità l’unica cosa da fare, davvero importante, non era partecipare: era vincere. E vincere -possibilmente- tutto. Chi perdeva rientrava con disonore nella propria città, viaggiando di notte, di nascosto, cercando di evitare gli insulti.  La Vittoria creava pochissimi eroi, scriveva i loro nomi sugli annali della storia: nessuno dei vincitori olimpionici sarebbe mai stato dimenticato. L’uomo greco cresceva in un mondo molto competitivo, nell’etica del successo, nella ricerca dell’immortalità, per “essere sempre il primo e il migliore di tutti gli altri”. A Olimpia si andava quindi esclusivamente per vincere con la forza dei piedi e delle mani, e ottenere una corona d’olivo selvatico, oggetto di poco conto ma che valeva una Gloria intera. Gloria, Vittoria, Forza, Bellezza, Virtù. Nulla ci dice della cultura greca più dei giochi: sulle Olimpiadi aveva imbastito addirittura il calendario.

Chi andava ad Olimpia, tra rituali, processioni, giuramenti agli dei, una cosa doveva saper fare molto bene: correre. Per le prime tredici edizioni non ci fu che un’unica gara: la corsa dei duecento metri.

…Ero come un viaggiatore che stava per partire. Ogni corsa è un viaggio. Mi chiedevo: ho preso tutto? Ero alla ricerca di un tempo, troppe volte perduto. Pensai fosse la volta buona. Remai un po’ in curva, controllai la sbandata all’entrata del rettilineo, non smisi di spingere, stavo andando a trentasei chilometri all’ora con le mie gambe. Corsi i primi cento in 10″ 34 e i secondi in 9″ 38. Arrivai con sei metri di vantaggio. Il pubblico urlò, ma io non ero sicuro. Non c’erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L’unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, forse avevano sbagliato anno? Eravamo nel ’79 non nel ’72, mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione, non riuscivo più a respirare…

( Pietro Mennea, raccontando il suo record di 19″ e 72 sui 200 mt )

L’emozione di una corsa in uno stadio, ora come allora, in un respiro, in un soffio. La corsa dei 200 metri rimase per i Greci antichi sempre la gara regina, quella della giornata inaugurale: quattro finalisti, splendore della migliore aristocrazia, nutriti a carne di toro -che dava coraggio- e carne di capriolo -che dava velocità- completamente nudi, scalzi, davanti a un pubblico sterminato ed esclusivamente maschile. Per 4 bei ragazzi che correvano c’erano, seduti per terra, fino a 40.000 spettatori. (E ce lo dobbiamo ricordare che la nostra civiltà viene da quella greco-romana, dove le unioni omosessuali erano addirittura pedagogia).

I tanti miti fondativi delle gare olimpiche, i racconti che spiegano l’origine dei giochi, vanno dal romanzo d’amore alla contesa politica, passando per il responso dell’oracolo, ma tutti raccontano di un bisogno profondo di tregua, di pace, di un tempo sospeso e raccolto: per far festa, per pregare, per misurarsi, incontrarsi, celebrare, ricordare. E la pace quadriennale tra tutti i litigiosi satelliti che componevano la costellazione del mondo ellenico, la stretta di mano tra tutte le città, è il valore che ha reso ogni mito di fondazione, ogni favola olimpica vera, buona anche oggi, buona anche per noi che sull’assegnazione della sede dei giochi dovremmo avere atteggiamenti più olimpici, meno ostili. Era in quella settimana di pace che la Grecia divisa ritornava a sentirsi nazione, fuori dai drammi delle armi e dei soldi. In nome di un dio che ognuno può chiamare come vuole, ma che è spirito di pace, quest’anno Rio2016 ha creato per la prima volta una squadra di atleti “rifugiati”, senza casa, sorretti e tenuti per mano dal Comitato Olimpico Internazionale. Atleti preparati che la guerra ha provato ad escludere, ragazzi che hanno tutti i numeri per correre le proprie gare, che cercano il tempo dei loro ideali duecento metri, sportivi che sognano ancora di poter rappresentare la propria nazione, una volta finiti i conflitti. Se qualcosa di immortale De Coubertin ha traghettato sulla riva attuale della storia, è stato l’ideale di tregua, di tempo perfetto. Importante, prima per partecipare, e poi per vincere, è ancora l’impegno di pace.

di Daniela Baroncini

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