Perchè No?

Non sempre ci si accorge di essere ad una svolta storica. La storia, qualche volta, non procede come una campagna napoleonica, con rulli di tamburi e colpi di cannone. Qualche volta, gli eventi sono piccoli e subdoli, come il forellino nella diga olandese (del famoso apologo) che diventa tragedia, se un bambino non lo tura con il suo piccolo dito.

Oggi siamo di fronte ad una scelta storica: non sono in gioco questi 20 anni (come dice uno degli slogan per il “sì”), è in gioco il nostro avvenire. Si tenta di minimizzare, di buttarla sulla polemica, di stornare l’attenzione con i soliti mezzucci mediatici. Si minimizza l’impatto della riforma sulla democrazia, si enfatizza l’importanza del cambiamento in quanto tale, della pretesa semplificazione, del risparmio. Come se il cambiamento fosse per definizione in meglio e non potesse essere in peggio. Anche la legge Acerbo, che regalò la maggioranza parlamentare al partito fascista, era un cambiamento: ma deleterio, come la storia ha dimostrato. Tra l’altro, anche quella legge, che assomiglia maledettamente sia al porcellum, sia all’italicum, fu presentata come un’innovazione epocale e considerata necessaria per garantire la governabilità, per recuperare il prestigio internazionale. Se qualcuno avesse la pazienza di spulciare le cronache dell’epoca, troverebbe che gli argomenti di allora sono proprio gli stessi usati prima da Berlusconi, poi da Renzi, per reclamizzare le loro riforme.
Soprattutto, si nega e si cerca di ridicolizzare l’idea che sia in gioco la democrazia, che ci sia una “deriva autoritaria”. Certo, non c’è da temere un ritorno al manganello, come in quel lontano e mai dimenticato ventennio; piuttosto – e più modernamente – un rafforzamento della “casta”, sempre più indipendente dal giudizio e dal controllo degli elettori; un’erosione lenta e inesorabile della sovranità popolare a vantaggio di un’oligarchia senza nome.
Ed è proprio questo l’intento lucido e consapevole di chi propugna questa sciagurata riforma: togliere quanto più potere possibile agli elettori, erodere proprio quell’articolo 1 (“la sovranità appartiene al popolo”) svuotando il quale crolla tutto. Da questo punto di vista, avrebbe ragione Renzi: sono proprio in gioco 20 anni di reiterati e – talvolta – riusciti tentativi di rottamare l’articolo 1, di asfaltare i nostri diritti.
Vi sono, in questa pretesa riforma, alcuni punti piuttosto allarmanti.
Il primo punto è l’oblio più totale del fondamento dei sistemi politici moderni.
Questo fondamento si chiama suddivisione dei poteri.
È un principio che compare per la prima volta nel 1748, ne “Lo spirito delle leggi” di Charles Louis de Montesquieu, che, nonostante fosse un aristocratico, ha posto le basi delle attuali democrazie, perché era uno spirito libero. Fu un’opera così rivoluzionaria da essere messa all’indice dalla Chiesa, condannata e osteggiata dalla cultura dell’epoca, perché minava la base dei sistemi assolutistici, allora considerati sacri, dove coloro che facevano le leggi erano gli stessi che poi le applicavano. Oggi, invece, qualunque sistema politico con una parvenza di democrazia si basa sul principio della suddivisione, più importante di qualunque altra garanzia costituzionale: perché la democrazia muore, se un governo può anche legiferare. Le due cose devono restare distinte, perché il “potere assoluto assolutamente corrompe”, diceva Montesquieu; ovvero: quanto più potere si ha, tanto più inevitabilmente si tende a fare i propri interessi. D’altronde, la ridondanza della corruzione politica in Italia testimonia quanto il potere si concentri in un’oligarchia. Dove c’è più equilibrio tra i poteri, c’è meno corruzione: è questo il risultato di una democrazia matura, dove sia chiaro chi governa e chi controlla.
Tanto è vero, che non è infrequente che negli USA, dove vige un presidenzialismo forte con pesanti poteri decisionali, vi siano conflitti tra esecutivo e parlamento: conflitti inevitabili – e auspicabili – sulla base del principio della suddivisione. Di recente Obama ha utilizzato il suo potere di veto, su una legge che consente di chiamare in causa l’Arabia Saudita per l’attentato dell’11 settembre. Ma il senato gli ha risposto picche: l’autonomia del senato non si tocca, almeno da loro. Perché la democrazia si disfa, senza suddivisione ed indipendenza dei poteri. Anche a costo di entrare in conflitto, se necessario: l’obiettivo di una riforma non può essere l’acquiescenza, contrabbandata per governabilità.
E da noi?
Da noi il governo (possiamo dire un governo sorretto da una “maggioranza” mai votata dai cittadini?) si è arrogato il diritto di cambiare la costituzione, annullando la suddivisione, finora bene o male vigente. Non tanto perché ha presentato un disegno di legge costituzionale, ma perché lo ha fatto approvare ponendo la fiducia. Come se l’esecutivo potesse metter bocca su una riforma di assoluta ed esclusiva pertinenza del potere legislativo. Parliamoci chiaro: in nessun paese democratico è mai successo un fatto così cervellotico. Anche senza rullo di tamburi e cannonate, il principio fondante della suddivisione dei poteri è stato assassinato, già con questo piccolo fatto, privo di scalpore. Se si trattasse di una partita di calcio, sarebbe da considerare un’entrata a gamba tesa, un fallo da rigore. Trattandosi di Istituzioni, non sarebbe, forse, da considerare una sorte di “golpe” strisciante?
Ma non basta: secondo questa schiforma costituzionale, in senato siederanno alcuni sindaci. Basta prendere uno di quei vecchi libri di educazione civica, per scoprire che i sindaci fanno parte, a pieno titolo, del potere esecutivo e non gli compete alcun potere legislativo. Perché questa commistione? Su quale principio si fonda? Perché i sindaci di Milano, Sgurgola, Caccuri, Bolzano o di altre città devono legiferare, pur essendo espressione del potere esecutivo, pur essendo stati eletti per tutt’altri compiti? Non è dato sapere: ma è un altro piccolo cuneo per abbattere quel principio sul quale tutte le democrazie si fondano. Ed è un altro indizio dell’assoluta insipienza – o, peggio, totale indifferenza – rispetto alle regole fondamentali del gioco democratico degli estensori della (si fa per dire) riforma.
Il secondo punto è, se possibile, più preoccupante.
Quando la Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità del porcellum, tutti hanno pensato che, per un ovvio corollario di quella sentenza, anche i parlamentari eletti con quel sistema avessero la tara evidente di non rappresentare l’elettorato. In fondo, è proprio per questo motivo che il porcellum è incostituzionale: perché ha menomato il necessario rapporto di rappresentanza e consenso. È altrettanto evidente che un parlamento non rappresentativo del “popolo sovrano” deve espletare strettamente quel che si chiama “l’ordinaria amministrazione”, cioè lo stretto indispensabile istituzionale, e cedere al più presto il posto ad uno più rappresentativo. Come può saltargli in mente di fare una riforma costituzionale?
Chi vuole mantenere questi parlamentari, privi di una legittima delega, ben inchiodati alle loro poltrone e gli dice di approvare leggi di portata costituzionale sta facendo un golpe bianco: un golpe senza armi da fuoco, ma con armi più subdole, come l’arroganza e l’ipocrisia.
In nome di chi agisce questo parlamento, se non rappresenta gli elettori?
Ebbene, questa non è una domanda retorica. Una risposta sarebbe doverosa e possibile. Nessun parlamentare l’ha data, preferendo far finta di niente; e poiché nessun garante della costituzione (mi riferisco, è ovvio, ai presidenti della Repubblica) ha ritenuto di dover sciogliere un parlamento ufficialmente considerato non rappresentativo, allora ognuno potrà rispondere da sé: non serve proprio nessun suggerimento.
Il terzo punto è davvero imbarazzante.
La nostra Repubblica è (teoricamente) una democrazia indiretta, o rappresentativa: i cittadini eleggono (almeno in teoria) dei rappresentanti, delegati al parlamento in nome e per conto degli elettori. Per questo l’articolo 1 della Costituzione recita che la sovranità appartiene al popolo. Non dice: in parte al popolo ed in parte ai consigli regionali.
Ora noi dovremmo avere, secondo Renzi, una Camera eletta, solo in parte, dai cittadini ed in parte più larga nominata dalle segreterie di partito (è l’evidente risultato dell’italicum); ed un Senato nominato dai consigli regionali. E l’articolo 1? Con la classica ipocrisia degli arroganti, non si dichiara di abrogarlo, ma, di fatto, lo si fa. (Benigni, pensaci, visto che ami tanto la prima parte della costituzione).
È pur vero che la nostra è una democrazia indiretta (io voto un senatore, che mi rappresenta e legifera), ma con il nuovo senato diventerebbe indiretta al quadrato (io voto un consigliere regionale, che nomina un senatore, che non si sa bene chi rappresenti, ma legifera): un doppio salto mortale carpiato, tanto per fottere il popolo sovrano.
Il quarto punto è di interesse psichiatrico.
Uno dei refrain governativi è: parliamo del merito della riforma, il resto sono chiacchiere. Ed è, apparentemente, un discorso di buon senso. Allora ho letto il testo della riforma. Ebbene, solo in alcuni punti è chiaro, per molti aspetti è misteriosissimo.
Per esempio, è chiaro dove dice che il senato contribuisce all’elezione del capo dello stato. Rabbrividisco al pensiero: i consigli regionali – e non i cittadini – nominano gli elettori del presidente della repubblica. Qui, comunque, il bicameralismo resta tale e quale, non viene per niente superato; ma in compenso si riduce il peso dell’elettorato, mentre la democrazia si fa indiretta al cubo (io eleggo un consigliere regionale, lui nomina un senatore e quest’ultimo elegge il presidente). E pensare che, tempo addietro, si discuteva di elezione diretta del presidente!
Resta il bicameralismo “perfetto” anche per le leggi costituzionali. Forse, sperano di farne di peggiori con l’aiuto dei consiglieri regionali, noti più per la loro tendenza a far scempio dei soldi pubblici, che non per essere dei fini esperti di diritto costituzionale.
In altri punti il testo è oscuro e farraginoso. Sembra scritto con l’intento di non esser compreso. Il bicameralismo diviene, più che imperfetto, confuso. Credo che non sia possibile discutere del “merito” perché un merito non si riesce a trovarlo, con tutta la buona volontà. Soprattutto, sono omessi i meccanismi attuativi: con leggi ordinarie – di là da venire – si stabilirà quali saranno le garanzie delle minoranze e quali le modalità di nomina dei senatori (ma, se ci fate caso, leggendo il testo si sarebbe indotti a pensare che quelle leggi esistano già).
Quindi, in pratica, ci si chiede di firmare una delega in bianco proprio sui due punti più sensibili, ma senza dirlo esplicitamente. Una delega a chi? Sempre a quel parlamento non rappresentativo, sempre a quel governo che gli fa fare quel che vuole lui.
Fermo restando che queste leggi dovrebbero esser fatte prima delle prossime elezioni, perché se no non si potrà formare un senato: una buona assicurazione per prolungare la vita di questo parlamento, che, non dimentichiamolo, non rappresenta l’elettorato (che non è un’opinione, ma un fatto ufficiale, sancito dalla Corte Costituzionale). Si sono garantiti l’impossibilità allo scioglimento delle camere, qualunque cosa succeda. Si sono garantiti che solo loro (quelli che non rappresentano l’elettorato) potranno legiferare su quei punti così delicati.
Un ultimo, matematico punto.
Checchè ne dica Renzi, legge elettorale e riforma costituzionale sono un tutt’uno: non sempre 1+1=2.
Tanto è vero che la prima prevedeva una data di entrata in vigore posticipata (il 1 luglio 2016) rispetto alla norma (15 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, l’8 maggio). Già osservando quest’anomalia, ci si accorge quanto strettamente siano legate le due cose.
L’italicum sarebbe monco se non fosse stata approvata, nel frattempo, la riforma del senato.
Secondo buon senso, uno prima modifica il parlamento (la riforma costituzionale) e dopo fa la legge elettorale adeguata alla riforma; il contrario è strano davvero. Ma che confusione: si fa una legge elettorale ipotecando il futuro, dando per scontata l’approvazione di una riforma di là da venire.
È evidente che, secondo Renzi, il parlamento non avrebbe potuto decidere diversamente da quanto voluto dal governo. E purtroppo, i fatti dimostrano che aveva ragione!
E questo ci riporta al punto di partenza: il potere esecutivo condiziona il potere legislativo, mentre questo non rappresenta più i cittadini. Con buona pace di Montesquieu e dell’articolo 1.
Per lo stesso motivo, viene anche il dubbio che il governo dia per scontato anche l’esito del referendum. Altrimenti, l’italicum non regge, diventa una legge inutile e superata. E, sicuramente, Renzi lavora perché l’esito sia quello che vuole lui.
Ma come? Possibile che voglia giocare con tutti gli italiani come con il parlamento?
E perché no? Qui, anzi, ha giocato d’anticipo. Primo, ha consegnato la RAI nelle mani del governo (per meglio dire: del presidente del consiglio), con l’apposita riforma. Secondo, si è accordato con Mediaset per la campagna referendaria, come riportato da alcuni giornali e non smentito da nessuno. Terzo, propina pubblicità (gratuita) per il sì in ogni notiziario: anche l’AGCOM si vergogna di dare i dati.
Ed allora, qualcuno si chiede ancora perché NO?

di Cesare Pirozzi

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