Sanità e diritti umani

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La cronaca talvolta ci propone situazioni che sembrano incredibili, ma sono, in realtà, “normali”. Non certo nel senso di “rispondenti a una norma” quanto, piuttosto, nel senso di abituali e comuni, ancorché assurde. Mi riferisco al triste e drammatico caso dell’uomo deceduto presso il pronto soccorso del San Camillo di Roma, senza aver avuto accesso ad un letto né a quel minimo di conforto e accoglienza che ognuno merita, soprattutto quando si accinge al passaggio finale. Ne parlo con una certa cognizione di causa, perché ho lavorato in quell’ospedale per molti anni, come chirurgo d’urgenza. Sono, adesso, in pensione. Mi trovo, quindi, nella condizione di conoscere per diretta esperienza i problemi di cui si parla, pur senza avere alcun interesse né obbligo né timore: la pensione rende liberi, forse per questo è oggi tanto tartassata. Cominciamo dall’ineluttabile dato di fatto: le attese di giorni al pronto soccorso, la difficoltà o l’impossibilità di trovare un posto letto sono del tutto abituali e durano da molti anni. Non è un problema nuovo, anche se si è progressivamente aggravato. Questo fenomeno ogni tanto diventa oggetto di cronaca e, quindi, di scandalo; ma è, tristemente, cosa di tutti i giorni. Si sono alternati diversi ministri della salute, governatori regionali, direttori generali e direttori sanitari dell’ospedale senza mai risolvere il problema. Sono tutti incapaci? Forse è anche vero, ma credo che le difficoltà siano, semplicemente, insormontabili nel contesto attuale. E mi spiego. Oggi il San Camillo dispone di 813 posti letto ordinari. Nel 2005 i posti letto erano 1378: una perdita del 41% in soli dieci anni; nel 1996 (quando iniziai a lavorarci) erano ancora di più. Ma l’afflusso al pronto soccorso è cambiato di poco. Con un taglio del 41% è persino ovvio che non tutti i pazienti afferenti al pronto soccorso trovino un posto di ricovero. Le persone informate diranno, giustamente, che ho troppo semplificato, perché vi sono altri fattori in gioco, come la degenza media (che è diminuita, ma non basta) o l’attivazione dei day hospital (che, però, già esistevano) o il “bed manager” (di cui l’ospedale dispone: ma, pur tentando di ottimizzarne l’uso, i posti letto non li crea). Tutte cose che tendono a ridurre il fabbisogno di posti letto; ampiamente, però, compensate dall’invecchiamento della popolazione, dall’aumento della povertà e degli eserciti di diseredati che non hanno nessun’altra assistenza sanitaria: tutte cose che lo fanno crescere. La sostanza è che l’offerta di posti letto è inferiore alla richiesta: questo è il fatto, il resto è chiacchiera. È ben per questo, al di là dei discorsi di prammatica, che il problema non può essere facilmente risolto. Per risolverlo bisognerebbe adeguare l’offerta alla richiesta, o viceversa. Sembra semplice, ma è impossibile nel contesto attuale dei principi che, in forma di leggi e regolamenti, governano la sanità. Il primo di questi principi è costituito dai limiti di spesa, ed i posti letto costano, portano con sé personale aggiuntivo e risorse materiali. Quindi, nessuno si prenderà la briga di cambiare davvero questa situazione aumentando l’offerta. La base della politica sanitaria italiana sono i soldi (o per meglio dire, i tagli), non le necessità dei cittadini.
Il secondo principio è il vincolo ad un rapporto predefinito tra numero di posti letto ospedalieri e numero dei cittadini, calcolato – se non sbaglio – a 3,7 posti ogni 1000 abitanti, nel “patto per la salute” del 2014. Teoricamente, non è un numero incongruo, considerato che altri Paesi europei hanno un rapporto inferiore. Il problema sta nello stabilire se è adeguato al nostro contesto: ed evidentemente non lo è. E poi, nel verificare come lo si applica. Voglio dire che il numero diventa congruo se i cittadini hanno accesso a strutture alternative e, soprattutto, se l’erogazione delle cure domiciliari (medici di famiglia, guardia medica, assistenza domiciliare) funziona bene. Tanto è vero, che altre realtà italiane non hanno i problemi di Roma e del San Camillo. Nel nostro contesto il numero di posti letto è insufficiente. Allora, un buon modo per cambiare la situazione sarebbe migliorare il contesto: ma anche questo nessuno lo fa. Anzi, lo si peggiora. Non ci credete? Eccovi un esempio. Alcuni anni fa, la Regione Lazio ha deliberato di attribuire una quota di posti letto al Campus Biomedico, bellissima ed efficientissima struttura universitaria dell’Opus Dei. Per far quadrare i conti del numero di posti letto nel territorio (che è fisso, per rispettare il budget di spesa) ha tagliato di un numero equivalente (circa 300) i posti letto del San Camillo. Il problema è, però, che il Campus non è dotato di un pronto soccorso. Così, se mi sento male, magari di notte, non ho accesso al Campus, ma continuo ad andare al San Camillo. Dove non troverò ricovero, per quei 300 letti in meno. Né potrò essere trasferito al Campus, che non ha strutture dedicate alle urgenze, né mai accetterà di ricoverare un paziente che abbia bisogno di assistenza per un tumore incurabile. Anche qui, per rispettare i numeri, non si è tenuto conto di un fatto aritmetico: stesso numero di accessi al pronto soccorso, meno 300 letti di degenza, uguale caos assicurato. In sintesi, pur essendo giuste le premesse (contenere le spese, rispettare il rapporto posti letto/popolazione) la loro applicazione risulta incongrua e provoca disservizi. I governi, a diverso livello (nazionale, regionale e locale), impongono il rispetto delle regole, senza provvedere a rimuovere prima gli inconvenienti che, in un certo contesto, le rendono inapplicabili o dannose. Il progetto della casa è bellissimo ma, se la costruiamo a partire dal comignolo e non dalle fondamenta, il risultato sarà disastroso. Per queste ragioni, il pronto soccorso del San Camillo resterà a lungo soverchiato dagli accessi che non trovano una risposta di ricovero. È una situazione, come ha detto qualche mese fa il governatore della Campania, da terzo mondo (anche a Napoli il problema è recentemente salito agli onori della cronaca e, ovviamente, non è stato risolto). Se le attese di ore e giorni aumentano ingiustificatamente le sofferenze delle persone che le subiscono, sono anche l’incubo delle persone (medici e infermieri) che ci lavorano. Tutto questo rende molto più faticoso lavorare e più facile sbagliare. Qualunque medico d’urgenza sarebbe disposto a pagare di suo, pur di evitarsi l’incubo di lavorare in una situazione di caos, di scontento, di rimostranze e, qualche volta, di assalti verbali o fisici da parte di familiari esasperati (succede anche questo). Qualunque valida soluzione riceverebbe da loro un sostegno molto convinto. Vorrei, infine, dire qualcosa di non direttamente inerente al problema dei posti letto. Mi riferisco al nostro atteggiamento nei confronti della fine della vita. Quando morirò (in genere facciamo gesti apotropaici quando si affronta questo discorso: ma è inutile, tanto siamo tutti mortali) vorrei non trovarmi in un ospedale. Credo che ogni essere umano abbia diritto di affrontare l’ultimo viaggio nella propria casa, con il massimo possibile di serenità: morire è una cosa naturale, non servono né ospedali né medici. Spero che, quando sarà, i miei familiari non abbiano timore di ciò che, inevitabilmente, sta per accadere e che non chiamino un’ambulanza per tentare di offrirmi un’assistenza inutile, che comunque preferirei ricevere a casa. E spero che il sistema sanitario li aiuti, quando sarà, a far valere questo mio diritto di morire in casa.

di Cesare Pirozzi

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