Non si canta sole cuore amore dentro il buio di una Metro

tavani

Isabella Ragonese – l’attrice che interpreta questa anonima vicenda della periferia urbana e umana contemporanea – da donna riesce a dare una grande, sensibilissima forza drammatica a un’altra donna che come tante è oggi negata alla radice nella sua esistenza, voce, sogni, speranze, possibilità di vita. L’autore e regista uomo di Sole Cuore Amore, Daniele Vicari, lascia che la Ragonese si prenda tutto lo spazio e il respiro necessari per “scrivere” – con la sua recitazione – le immagini che restituiscono il senso più autentico dell’opera. Solo, infatti, se l’interprete principale fosse riuscita a dare al suo personaggio pelle, parole, pensiero, passi, sguardi, gesti, stanchezza che noi riusciamo a percepire in maniera viva attraverso lo schermo, allora la storia di una piccola donna dell’hinterland metropolitano sarebbe stata il più vasto grido di tante, troppe donne stritolate da quell’infernale meccanismo di sfruttamento e distruzione umana che si chiama precariato.

Perché questo è Eli, la protagonista del film: una dei milioni di donne dall’esistenza ignorate, cancellate, che muovono l’immane, diffuso motore delle immense aree urbane, ma sono da esso quotidianamente divorate. Eli si alza tutto il giorno con il buio e torna a casa con il buio. Parte da Nettuno per essere alle sette di mattina in un bar sulla Tuscolana a Roma, nel quale lavora dietro il banco, adorata dagli avventori ma sottopagata e privata di ogni garanzia dal suo proprietario. Eppure, alla fermata dell’autobus sotto casa, da dove parte, c’è un bar pasticceria simile a quello in cui lavora, distante due ore e mezzo di viaggio (e altrettante per il ritorno). Nelle stesse condizioni, è la sua compagna di bancone, extra-comunitaria che studia fisica all’Università di Roma.

È davvero un esercito di giovani – soprattutto donne – quello che sbarca ogni giorno nella capitale e si sparpaglia nella miriade di meandri lavorativi, nudi di diritti e redditi dignitosi. Un delta di sfruttamento fluviale, nel quale la stessa parola “democrazia” l’è morta e sepolta nel fango e nei vermi da un pezzo. Accanto alla vicenda di Eli scorre quella di Vale, la sua amica del cuore fin dall’infanzia. Vale è una ballerina, performer, artista di spettacoli di danza contemporanea, che per sopravvivere è costretta a esibirsi fino all’alba nelle discoteche e nei luoghi del divertimento notturno. Anche Vale, sottopagata, derubata, lavora insieme a un’altra ragazza, la quale si assoggetta a vivere sotto le stesse lenzuola del gentiluomo che procura loro lavoro nei locali, in mancanza di un suo tetto sotto cui ritirarsi la notte. Quando Vale rientra prima dell’alba a casa, Eli sta uscendo per prendere l’autobus. S’incontrano lungo le scale della stessa palazzina in cui vivono. Ecco un’altra sensibilissima interpretazione femminile: quella di Eva Grieco, nel ruolo di Vale, sia come attrice che danzatrice.

La fase speculativo-finanziaria del capitalismo ha trasformato giovani persone con diplomi, lauree, livelli d’istruzione diffusi in un esercito di cameriere, inservienti, bariste, cubiste, shampiste, addette alle pulizie dei cessi, private di ogni parvenza di dignità umana. Tutto questo nella più assoluta, tranquilla e quotidiana “banalità del male”. Lo dimostra il proprietario del bar in cui la vora Eli. In fondo una persona non umanamente spregevole in sé: eppure tranquillamente spietata quando si tratta di cedere il più piccolo respiro di umanità. La forza del ricatto esistenziale e lavorativo è descritta da Vicari e fatta vivere da Ragonese proprio senza il bisogno di caricare i toni e i colori del lugubre sfruttatore.

Qualcuno, però, ha obiettato che Vicari ha voluto caricare troppo sui toni del neorealismo, soprattutto nella situazione familiare di Eli, con un marito disoccupato, o costretto a lavoretti troppo saltuari, e quattro figli da mantenere. Strana osservazione quest’ultima, soprattutto se poi a farla è chi è sempre pronto a scagliarsi contro la crescente presenza degli immigrati nella nostra realtà, come se questa fosse indipendente dal continuo calante andamento demografico del nostro Paese. Non è certo su questo che fa solido perno il film di Vicari, perché anziché i figli potrebbe essere un genitore, un altro congiunto malato. Il dramma vero è che tale apice del capitalismo si è impossessato completamente della vita umana, fin nelle sue sfere psicofisiche, biologiche più profonde. È un bio-potere. Così, il titolo del film non può che suonare tragico contrappunto canzonettistico a ciò di cui la nostra biologia vitale avrebbe bisogno per non essere spezzata alla radice.

di Riccardo Tavani

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