Qualche considerazione da Praga

cerulliQualche giorno fa ho partecipato a una piccola manifestazione davanti all’ambasciata turca di Praga, dove sto passando un semestre di Erasmus. Un mio amico tedesco, appena terminata la lezione che frequentiamo insieme, mi ha proposto di seguirlo e, nonostante non avessi idea del motivo della protesta, ho pensato fosse un’occasione unica per provare a oltrepassare la barriera che la gente di questo Paese ha eretto nei confronti di chiunque venga da fuori. Disinteresse, apatia, insofferenza, fastidio. Questo è più o meno ciò che il ceco medio dimostra a noi altri studenti europei (e non), anche all’interno dell’Università. Il risultato è che vivo qui da quasi tre mesi e non sono riuscito ad entrare a contatto, uno degli obiettivi del mio essere qui, con la gente del posto, né quindi a farmi un’idea delle loro abitudini, della loro idea sul mondo, degli ideali e dei conflitti interni al Paese. L’occasione era propizia, quindi l’ho colta.
Arrivati davanti all’edificio, siamo stati accolti da una ventina di ragazzi dai 17 ai 25 anni con bandiere e cartelloni. Accolti nel vero senso della parola, visto che eravamo le uniche due facce sconosciute: gli organizzatori corrispondevano ai partecipanti. Dai cartelli è emerso subito chiaro il motivo della protesta, ovvero le ultime mosse di Erdogan nei confronti delle opposizioni, o meglio degli oppositori al governo. Con loro, quattro curdi che avevano ben altre ragioni per essere lì. Il quadro mi è apparso quindi da subito piuttosto grottesco nell’insieme: un piccolo gruppo giovanissimi cechi in piedi davanti a piccolo edificio immerso nel verde, circondati dalla polizia che aveva chiuso entrambi gli accessi alla strada e creato un cordone tra noi e l’ambasciata, e un paio di dipendenti della stessa che, con la faccia tra lo sbigottito e l’infastidito, osservava la scena da un piccolo terrazzo.
Per quanto condivida l’avversione nei confronti di Erdogan, semplicemente mi è sfuggito il senso di questa protesta. Ragazzini dai capelli lunghi, qualche rasta, acne e capelli verdi; ragazze con bei cappotti costosi e lucide scarpe alla moda, iPhone in tasca e occhialoni da intellettuali con il megafono in mano a protestare contro le politiche di quello che, a conti fatti, è il Presidente eletto di un Paese lontano, che nessuno o pochi di loro ha neanche solo visitato, del quale forse non conoscono nemmeno un abitante. Una lettura al megafono di un bel foglio preparato a casa che elencava i crimini del regime, alternato ai quattro curdi che approfittavano dei momenti di silenzio per intonare un canto di libertà. Due presupposti ben diversi, due ragioni opposte, con consapevolezze non paragonabili sulle spalle: un’incomprensione che va ben al di là della semplice barriera linguistica, che già da sola rendeva desolante la scena.
Cosa sognano questi giovani studenti cechi per la Turchia? Una democrazia europea? Ho letto in quel pomeriggio la pretesa di superiorità di chi si culla nella certezza di possedere il sistema ideale e cerca di insegnarlo al fratello minore. Non è molto diverso dall’esportare la democrazia. È solo in una scala più piccola. Io, loro, in quel momento noi, non eravamo in Turchia durante i sommovimenti di qualche anno fa. Non abbiamo preso le bastonate, i lacrimogeni. Non eravamo in piazza, né siamo stati portati in prigione, interrogati, schedati. Eppure avremmo potuto, tanti l’hanno fatto.
Tutti noi però eravamo qui, mentre l’Unione europea stanziava milioni in favore di Erdogan per bloccare il flusso dei migranti. Siamo stati a guardare mentre qui, da noi, si costruivano muri contro mamme e bambini. Mentre si è presa la strada dell’austerità, si smantellavano i diritti dei lavoratori e venivano messi in ginocchio interi paesi.
Non vedo una situazione poi tanto diversa da quella turca, qui in Repubblica Ceca. Solo meno palese. La nostra cara democrazia ha altre armi, subdole perché quasi invisibili.
Qualche sera fa aspettavo il tram notturno per tornare al mio studentato, quando un uomo ubriaco si è avvicinato. Era un senzatetto, uno dei tanti qui. Pensava fossi del posto all’inizio, mentre mi chiedeva a che ora passasse il prossimo mezzo. Poi ha notato il diverso accento del mio stentato ceco, e tanto è bastato. Ha cominciato a gridare che avrebbe ucciso tutti i negri e i musulmani. “Questa è Praga, questa è la Repubblica Ceca”, diceva. E tanto per essere più convincente, mi ha stretto le mani intorno al collo. Ecco, oltre a un po’ di paura e di dolore alla gola, questo episodio mi ha portato a una triste riflessione sul nostro bel sistema, dove un uomo che non ha un posto dove dormire, non ha da mangiare, è invisibile allo sguardo dei suoi concittadini ed è dimenticato dal governo del suo Paese, trova la sua ragione di vita nello scagliarsi contro un nemico che viene dall’esterno. Che nemmeno conosce, perché qui non c’è l’ombra di un rifugiato, e che comunque in linea di massima condivide la sua stessa sorte.
Ecco, questa è una delle armi subdole. Spostare l’attenzione all’esterno, e mettere gli uni contro gli altri i deboli e gli emarginati. Così come anestetizza le piccole élite medio borghesi e le convince della bontà del nostro sistema. “Non sarà il migliore dei mondi possibili, ma guarda cosa succede in Turchia…”.
Attenderò la prossima manifestazione, qui a Praga, e spero sarà contro la chiusura dei giornali indipendenti per banca rotta, mentre i grandi poteri acquistano l’intera industria editoriale; contro l’annientamento degli oppositori politici per mezzo di gogne mediatiche o processi sommari; contro la retorica dei nuovi nazionalismi, contro le barriere, contro la disumanità del neoliberismo, o contro le politiche ad esempio dell’alleato Orban, non tanto diverso da Erdogan. A questa, di manifestazione, parteciperò non come osservatore interessato, ma con tutta la mia convinzione.

di Simone Cerulli

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