Giuditta Levato: il sacrificio di una madre

Giusi Patera

In alcuni paesi del Meridione, essere moglie, madre, lavoratrice emancipata e libera non è semplice, ancora oggi. Chi vive o è vicino ad alcune realtà sa bene quanto la parità di genere non sia un condizione da dare tanto per scontata, per quanto ciò possa sembrare assurdo. Si può dunque facilmente immaginare cosa potesse significare essere donna in queste stesse terre nel secondo dopoguerra, in anni in cui erano ancora tutti da conquistare i diritti umani per uomini e donne.

Nel 1946, Giuditta Levato era una giovanissima sposa e una giovane madre in attesa di un figlio, contadina nelle terre di Calabricata, frazione di Sellia Marina, in provincia di Catanzaro. Il 28 novembre, come ogni giorno, si era recata nelle terre coltivate liberamente da lei e i suoi compaesani. Nel tentativo di abbattere il latifondo e permettere la libera coltivazione delle terre incolte, garantendo lavoro ai cittadini, l’allora ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo aveva emanato un decreto volto a favorire un cambiamento in tale direzione. Ma si sa, conservatori e proprietari terrieri sono restii a cambiamenti e distribuzione di beni: quella mattina del 28 novembre 1946 anche l’agrario Pietro Mazza volle esprimere la propria idea in merito. Idea che si concretizzò in un colpo di fucile sparato a caso, non si sa bene da chi, ma che uccise Giuditta e il bambino che portava in grembo.

“Sono morta per loro, sono morta per tutti”, pare siano state le ultime parole di Giuditta. Un sacrificio ricordato ancora oggi nel nome dell’associazione di Sellia Marina a lei dedicata, un omaggio alle donne calabresi che lavorano, vivono e muoiono troppo spesso in silenzio. A distanza di settant’anni da un omicidio che non ha avuto giustizia (il processo contro il servo di Pietro Mazza, accusato di aver sparato il colpo fatale a Giuditta, fu assolto), un anniversario che ricorre negli stessi giorni della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne: al sud Italia e in tutto il mondo le donne soffrono e muoiono ancora. A distanza di settant’anni cosa sta cambiando, e quanti altri nomi di donne affolleranno liste e statistiche che tra altrettanti anni saranno solo numeri senza volto?

di Giusy Patera

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