Giuseppe Puntarello, vittima della mafia

L’uccisione del segretario del PCI di Ventimiglia Sicula

Dopo lo sbarco degli alleati e la sua veloce conquista del 1943, la Sicilia si trovò presto ad essere “defascistizzata”, anche grazie all’appoggio della mafia che aveva facilitato l’avanzata anglo-americana. Questa insolita alleanza con gli alleati, aveva liberato la mafia dal giogo in cui la repressione posta in atto dall’azione di Cesare Mori, il cosiddetto Prefetto di ferro, l’aveva costretta: dopo anni di basso profilo, toltasi la camicia nera con la quale si era mimetizzata, la mafia siciliana poté tornare ai suoi vecchi metodi.

Potendo godere di una certa tolleranza da parte degli occupanti, per i mafiosi ora i nemici più ostici non indossavano più una divisa, ma erano coloro che dal basso ne contestavano il potere. I partiti di sinistra, il socialista ed il comunista, in quanto organizzati, strutturati e ideologicamente avversi ad ogni forma di sfruttamento, ora diventavano gli unici pericolosi oppositori. Ecco che le sezioni di partito, le camere del lavoro, improvvisamente vennero a rappresentare l’unica forza che cercava di contrastare il sopruso e la violenza mafiosa.

Allora la sovrapposizione tra le ideologie socialista e comunista, divenne sinonimo di antimafia, poiché al sud prima ancora che “il padrone”, il sinonimo di sfruttamento era nell’organizzazione criminale che agiva per suo conto. Nelle ideologie, negli atti, nelle manifestazioni di quei partiti, era chiaro l’intento sconfiggere ogni sfruttamento; quindi l’esserne un esponente ed essere contro la mafia, divenne un inevitabile sinonimo. Per questo, da allora tutti gli abili organizzatori, tutti i carismatici capi-sezione divennero obbiettivi di intimidazioni, di attentati, di omicidi e sparizioni senza più ritorno.

Da allora ad oggi, è impressionante leggere la sequenza di comunisti e di socialisti, uccisi barbaramente dalla mafia, solo per avere osato dire no allo sfruttamento, no al sopruso, no al controllo della libertà da ogni padrone. Tra i tanti che caddero sotto la violenza di cosa nostra, il 4 dicembre del 1945 fu vittima anche Giuseppe Puntarello.

Nato nel 1892 a Comitini, nel 1932 si stabilì a Ventimiglia di Sicilia dove trovò lavoro, si sposò ed ebbe cinque figli. Persona semplice, dovette anche emigrare per due anni ad Asmara, in Eritrea e al ritorno a Ventimiglia cominciò ad interessarsi della questione contadina. Nell’immediato dopoguerra, da segretario della locale sezione del PCI, fu un esempio d’impegno e di coraggio, nella difesa del locale movimento contadino. Per questo all’alba di quel giorno, un commando mafioso lo uccise a colpi di lupara, mentre si stava recando all’autorimessa della ditta di trasporti per cui lavorava, la INT, per prelevare l’autobus di linea che avrebbe dovuto condurre, al posto di un collega impossibilitato. Questo particolare fece sì che per qualche anno si ritenesse che fosse stato ucciso per errore, al posto di chi avrebbe dovuto guidare il mezzo, quel giorno. Ma successivamente si venne a sapere che l’obbiettivo di quell’omicidio era veramente lui, a causa del suo impegno di dirigente della Camera del Lavoro.

Giuseppe Puntarello, fu uno dei tanti comunisti impegnati nelle lotte per i diritti dei contadini e dei braccianti, che la mafia eliminò in quegli anni, per piegarne il movimento, che lottava per avere le terre dei latifondisti. Fu uno dei tanti, non il primo e nemmeno l’ultimo, a morire perché come cantavano loro: “nessuno più al mondo dev’essere sfruttato!”

di Mario Guido Faloci

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