L’uccisione di Gennaro Ventura, fotografo a Lamezia Terme.

Essere un fotografo, vuol dire immortalare l’esterno attraverso il proprio obiettivo, i propri occhi. Cristallizzare l’essenza di un panorama, un uomo, qualsiasi essere vivente e renderla così eterna.
Questo è quello che faceva Gennaro Ventura. Lo faceva nel suo paese natale, Lamezia Terme, dopo aver lasciato l’Arma. Dopo aver fatto arrestare un suo conterraneo, Raffaele Rao cugino del boss Cannizzaro, responsabile di una rapina ai danni di un perito del tribunale di Roma nel 1996.
A ventotto anni, aveva deciso di cambiare vita Gennaro. Aveva scelto di svestire la divisa, per seguire le orme del padre. Forse per rincorrere la sua vera passione, o forse perché stanco di vedere cose troppo lontane da lui, che non lo rispecchiavano. Ma non bastò. I clan non dimenticano.
Così qualche mese dopo, a dicembre, fu attirato da Pulice (diciottenne considerato il killer di punta della congrega di Lamezia), in una trappola in cui gli fu chiesto un servizio fotografico. Un servizio che gli costò la vita e in cui fu ucciso a colpi di pistola.
Fu gettato in una zona di campagna del Lametino, in località Carrà Cosentino, dentro un pozzo per la decantazione del mosto. Venne ritrovato casualmente 12 anni dopo, nel 2008, insieme alle attrezzature fotografiche, la fede nuziale, il telefono cellulare e altri oggetti personali.
Per la precisione, vennero ritrovati i resti. Quanto rimaneva di un uomo che aveva svolto semplicemente il suo lavoro, per pochi soldi e un pasto onesto da concedere alla famiglia.
La Squadra mobile della Questura di Catanzaro, venti anni dopo, gli ha reso finalmente giustizia. Ricostruendo l’intera vicenda e notificando il provvedimento a Domenico Antonio Cannizzaro. Già detenuto per altri crimini, nel carcere di Tolmezzo in provincia di Udine.
Fondamentali ai fini delle indagini, proprio le dichiarazioni del neo collaboratore di giustizia Gennaro Pulice, accusato di essere l’autore materiale del terribile delitto:
«Ho ammazzato io il fotografo Ventura. Aveva arrestato una persona facente parte dei Cannizzaro e per questo Domenico, all’epoca al vertice dell’omonimo clan, ne ha decretato la morte.»
Una vendetta. Una feroce rappresaglia, ai danni di chi sapeva rendere eterno il tempo attraverso un obiettivo, ma non auspicava la stessa durevolezza ai sinistri interessi della ‘Ndrangheta.

di Sara Di Paolo

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