Il gelo che uccide

La strada. Roma. Il Parione, sesto rione.

Gli sei passata accanto e non l’hai visto. Camminavi veloce, le gambe lunghe e la fretta di chi ancora sta nell’alba della vita e non vede l’ora di sapere come andrà a finire il giorno che l’aspetta. Tu non l’hai visto, ma lui ti ha seguita con gli occhi: sei giovane, sai di nuovo e di speranza e lui ha guardato i tuoi vent’anni avvicinarsi, salire sul marciapiede. Stava a un metro da te, sui gradini di una chiesa, tra un cancello di ferro chiuso come un amen e una fila di vasi da balcone ancora pieni di foglie. Come hai fatto a non vederlo? Un senzatetto, col suo cappello di lana colorata, seduto tra le buste di plastica e i cartoni stivati tra piante e cancello in un ordine sedimentato dal tempo, dal caso e dalla necessità.  Quei fagotti da tenere sott’occhio notte e giorno sono per lui tesoro e impedimento. Bloccato dal destino, prigioniero dei suoi stracci, non può muoversi da lì, da quel gradino che sembra un balcone, o una trincea. Di notte prova a dormire, di giorno osserva i passanti, tra i vasi, sulla strada, guardandoli dal basso nella prospettiva delle lattine schiacciate, delle cicche di sigarette, delle merde dei cani, dei sampietrini consumati. E come accade al protagonista dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello, gli rimane soltanto l’immaginazione per riuscire a tenersi attaccato alla vita “come un rampicante attorno alle sbarre di una cancellata”. L’immaginazione gli serve per aderire continuamente alla vita degli altri, degli sconosciuti come te che gli passano davanti, alle infinite storie che compongono la trama del mondo e riempiono il vuoto delle storie che ha perduto.

Avresti dovuto guardarlo, quell’uomo che vive senza tetto. È di lui e di quelli come lui che ti dovrai ricordare. Sempre. Perché lui e quelli come lui, in questo tempo di freddo inclemente, ogni notte rischiano di morire mentre noi passeggiamo disinvolti pensando tranquilli a ciò che faremo domani.

“Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: «Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso ». E con quelle due dita protese, la piglia e butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi.”

 

Pensavo che la morte per assideramento fosse un retaggio del passato, una stortura della guerra da archiviare, una condanna da trincea. “Qui fa freddo sul serio”, scriveva un soldato della Seconda Guerra Mondiale dalla Russia ai suoi cari.

Pensavo che -stipulata la pace- i morti di freddo sarebbero rimasti soltanto un ricordo sbiadito tra le righe delle lettere piene di fame di neve e di fango scritte dal fronte.

Invece questo 2017 è iniziato contando sei morti assiderati in 48 ore. È questa l’Italia che ti lascio -mio malgrado- in eredità: un Paese senza una legge seria di contrasto alla povertà e con più di 50.000 persone senza fissa dimora che abitano nelle nuove trincee della solitudine urbana. C’è una guerra, là fuori, per sconfiggere la morte. La combattono insieme quelli che cercano di sopravvivere pur dormendo per strada e tutti quelli che per strada di notte li vanno a cercare, per portarli al riparo, per garantire loro un pasto caldo, una sciarpa, una coperta.  Tieni conto di questa guerra che in qualche misura già ti appartiene e quando dovrai decidere da che parte stare, scegli di difendere la vita.

di Daniela Baroncini

 

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