Legge 194: promesse disattese.

Il divieto, per l’Annetta, era di non oltrepassare il marciapiede che faceva il giro intorno a casa. Tra il perimetro di un marciapiede è l’idea di libertà c’è un abisso, eppure, per quanto un marciapiede possa essere stretto, se ci si fa camminare l’Amore puó diventare sconfinato. Ecco perchè -nonostante il divieto- l’Annetta rimase incinta ancora giovane, chissà come. La condussero via, chissà dove. La riportarono a casa dopo qualche giorno, in un silenzio familiare concordato e convinto, uno di quei silenzi che mettono soggezione e che pretendono di cancellare gli accadimenti, di sbiancare il foglio vecchio su cui ricominciare a scrivere la una storia nuova. L’Annetta peró a scrivere non era capace, neanche a leggere: ripartí infilandosi una veste a lutto che non si sarebbe mai piú levata e si mise a fare il pane per tutta la gente di casa. Ogni settimana che Dio le concedeva, l’Annetta accendeva il forno del cortile e ne tirava fuori un pane nuovo, invecchiando per anni e anni incolori, fatti di ceneri e braci, di giorni di abiti neri e di farina bianca. A guardarla giocare col fuoco, spostare le braci, comiciavi a mangiarlo dall’odore -quel pane- tanto era buono. Fino alla fine dei suoi giorni l’Annetta fece il pane, di figli non ne fece piú.
Nella primavera dell’81, quando i dibattiti sul referendum sull’aborto agitavano le piazze e le parrocchie (oggi le piazze tacciono, le parrocchie no) il ricordo lontano dell’Annetta e del suo pane era tornato a galla come un legno ancorato sul fondo cui l’acqua ha consumato la corda e risale in superficie, libero. Piú di mille racconti dettagliati degli orrori degli aborti clandestini, era stata la storia in bianco e nero di quella donna di montagna a dirmi da che parte stare, ad indicarmi quale era il marciapiede occupato e quale invece quello libero per camminare e andare avanti. Lei non aveva avuto scelta: nessuno l’aveva informata su niente, né prima né dopo, le era stata negata un’adeguata assistenza sanitaria. E forse -se aiutata- quel figlio l’avrebbe potuto tenere, o se avesse potuto abortire in un ospedale, un altro figlio -magari dopo- l’avrebbe potuto avere.
L’idea che con la legge 194 lo Stato si sarebbe fatto garante del diritto per le donne alla “procreazione cosciente e responsabile” significava un’inversione di rotta nella vita di tutte le Annette future, tante e diverse, ma ugualmente libere dall’ignoranza e dal peso concreto delle sofferenze, donne alle quali il diritto di sapere, di scegliere, e in molti casi di sopravvivere, non sarebbe stato più negato.
Quella legge dopo quasi quarant’anni e un referendum non ha ancora trovato una corretta attuazione, invalidata da una forma di autonomia etica che fa di 7 medici italiani su 10 degli “obiettori di coscienza”. Gli obiettori sono medici che hanno iniziato gli studi quando già la legge 194 era in vigore, e che sono perciò informati a sufficienza sul destino della loro professione fin dall’inizio del loro percorso universitario. Gli obiettori sono medici che lavorano nel pubblico eppure mettono le proprie private convinzioni davanti al compito che devono svolgere: decidono di non stare dalla parte della legge, di non garantire alle donne il diritto alla procreazione cosciente e responsabile. Gli obiettori sono medici (e personale impiegato nella pubblica sanità) che possono permettersi il lusso di fare ogni giorno quello che l’Annetta in tutta una vita non ha potuto fare mai: scegliere. Anche se noi a lei avevamo promesso che con la legge 194 molto sarebbe cambiato; c’eravamo impegnati, gliel’avevamo anche garantito, messo per iscritto con un referendum popolare. Dopo aver partecipato a lunghi dibattiti, pesato infinite considerazioni, non era stato facile per nessuno mettere un voto, tenere ferma la scheda con una mano appoggiata sulla matita e l’altra sulla coscienza.

di Daniela Baroncini

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