Responsabilità medica: colpa e nesso di causalità.

La sanità spesso e volentieri è sotto accusa. Tanti i casi di malasanità nel nostro paese. In alcuni casi accertati, in altri evitabili e in altri ancora i medici e le strutture sanitarie non hanno avuto colpa.

La responsabilità medica è quel tipo di responsabilità che deriva dai danni cagionati ai pazienti da errori od omissioni dei sanitari.  Essendo la medicina considerata un’arte, non già una scienza esatta, non tutti i risultati si possono considerare uguali, essendo, dati statistici alla mano, differenti da paziente a paziente e quindi avere differente soluzione. Ogni essere umano è unico e il suo organismo, pur applicando un protocollo conforme alle direttive sanitarie, può rispondere a queste in maniera diversa rispetto ad altri pazienti trattati. Motivo, questo, che sottopone i medici a potenziali azioni giudiziarie e a domande di risarcimento del danno da parte dei propri pazienti o dei loro familiari.

Alcuni profili di colpa nell’operato dei medici nei confronti del paziente sono comunque ben individuati, ma questo non basta per affermare la loro responsabilità o della struttura sanitaria, occorre indagare l’esistenza del nesso causale.

Il Tribunale di Trento, con sentenza n. 893/2016, si è pronunciato sul ricorso di un marito che aveva trascinato in giudizio la guardia medica di un ospedale e l’ASL, ritenendoli responsabili della morte della moglie, chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non subiti, per diritto proprio e per diritto di successione, in conseguenza del decesso.

L’uomo sosteneva la responsabilità dell’ospedale per non aver informato tempestivamente la moglie dell’esito di analisi cliniche oltre alla errata scelta di sottoporla a chemioterapia . Veniva altresì ritenuto responsabile il medico in servizio di guardia, in quanto in preda a lancinanti dolori la signora veniva ricoverata in pronto soccorso. Subiva un intervento chirurgico con asportazione dell’appendice, risultato tardivo in quanto la poveretta decedeva.
Il giudice, nel processo distingue i due profili della colpa e del nesso causale, con riferimento sia al danno tanatologico che a quello della perdita di possibilità.

Il primo profilo, pur essendo ovvia la colpa dei vari operatori (nel ritardo della comunicazione dell’esito delle analisi, ma non della scelta della terapia adottata ritenuta corretta dalla Consulente Tecnico d’Ufficio), e ricordando che non è sufficiente, “al fine dell’affermazione di una responsabilità – di medico e struttura – essendo altresì necessario indagare l’esistenza del nesso causale”.

Premesso che l’indagine deve essere condotta secondo il criterio del “più probabile che non” prosegue la sentenza, “va osservato che mentre nel caso del danno tanatologico, l’evento da porre in relazione alla condotta colposa è rappresentato dalla morte, nel caso del danno da perdita di possibilità esso si identifica con la perdita di un risultato utile”, che, ove venga in discussione, come nel caso di specie, l’integrità psico–fisica della persona, “può consistere nella possibilità del paziente di veder rallentato il decorso della malattia, e quindi aumentata la durata della sopravvivenza, ovvero nella possibilità di fruire di migliori condizioni di vita nel corso della malattia, ovvero ancora nella possibilità di sopravvivenza”.

Sulla base di questi criteri e supportato dagli esiti della CTU, il tribunale, ha dunque escluso l’esistenza di un nesso causale tra i ritardi e la morte della donna, con riferimento al danno tanatologico, ritenendo invece configurabile il danno da perdita di chance sotto forma di perdita di possibilità di sopravvivenza, liquidandola al 50%.

di Antonella Virgilio

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