Don Peppe Diana: simbolo del cambiamento. Icona per la chiesa. Voce controcorrente. Un prete e il coraggio di dire “Basta!”

Giuseppe Diana, chiamato anche Peppe Diana o Peppino Diana, è stato un presbitero, scrittore e scout italiano. Il suo impegno civile e religioso contro la camorra ha lasciato un segno profondo nella società campana. Aveva dedicato la vita e l’impegno pastorale alla lotta per contrastare l’illegalità. Regalava stupore, quella esperienza che scardina gli schemi, contagiava di libertà. Giuseppe Diana sapeva liberare la parola. E proprio perché entrava nella vita, la sua non era una parola neutra e la sua predicazione non poteva non suscitare accoglienza e ostilità. Dentro e fuori la chiesa. Le sue non erano prediche generiche, ma ragionamenti ricchi di esempi, di nomi e di cognomi, di denunce etiche e politiche. Questa sua pretesa, questo uso della parola gli sono costati la vita. E certamente in questo suo passaggio ha lasciato un’impronta di sé.

Che uomo era?… Giuseppe Diana, un sacerdote, ma semplicemente un uomo. Un esempio da seguire per quello che ha fatto. Un semplice uomo con tanto coraggio. Ebbe il coraggio di combattere la camorra e di morire eroicamente. Un uomo di chiesa che era realmente un “uomo di Dio”. Un grande testimone. Un esempio di come profondi valori religiosi e impegno civile possano camminare assieme. Una delle persone di cui la Chiesa può andare ben fiera. Prete, scout ucciso dalla camorra per difendere la libertà del suo popolo. Una voce controcorrente e sacerdote attento agli umili e agli emarginati. Una voce, la sua voce, diventata un grido che scuote le coscienze. Quando c’è bisogno lui sa come mobilitare la gente. Eccellente comunicatore: dal pulpito, dagli opuscoli che scrive, dalle manifestazioni e cortei che organizza. Don Diana si dà da fare. Negli anni la sua figura è diventata uno dei simboli del cambiamento, un’icona non soltanto per la chiesa ma per tutto il territorio casertano.

C’è un prete che si chiama don Giuseppe, don Peppino. È un prete speciale, molto impegnato, molto presente, molto attivo soprattutto nel movimento anti-camorra. Don Peppino era uno scout, con questo spirito di servizio aveva intrapreso la lotta alla camorra, si era messo in testa di scuotere le coscienze della sua gente che da qualche secolo convive con le violenze della criminalità. Lo aveva gridato dall’altare: “Per amore del mio popolo non tacerò!”. Andava perfino nelle scuole a parlare con gli studenti. È stato un prete che ha rotto con quello che era stato fatto sino ad allora. Attacca la camorra e la chiama una dittatura armata, e lì a Casal di Principe, la patria dei casalesi, è sicuramente così.

Oggi Giuseppe Diana manca molto. Manca l’uomo. Manca la sua coerenza. Manca la forza dei suoi principi. Manca la sua capacità di scavare l’umano. Continua a sorprenderci per la straordinaria voce che si irradia dalla sua opera, messaggio di un testimone del dolore e dell’amore. Sono in un certo senso i suoi versi, uno dei suoi testamenti spirituali scritti da un testimone mai dimenticato, di cui si ricorda in questa stagione il ventitreesimo anniversario della morte, che hanno lasciato un segno profondo. Un documento vivo con un titolo forte: “Per amore del mio popolo non tacerò”. Un documento inaspettato, un grido di dolore, oltre che di amore. Un duro e coraggioso documento contro la camorra. È stato per il clan una specie di affronto questo suo documento. Un invito al popolo a non tacere e a ribellarsi alle bande criminali. E questo suo documento lo condanna a morte. Lo scritto più noto di Giuseppe Diana. Un messaggio di rara intensità e, purtroppo, di grande attualità. Una lettera, un manifesto dell’impegno contro il sistema criminale.

Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe, in provincia di Caserta, nei pressi di Aversa, il 4 luglio 1958, da una famiglia di proprietari terrieri. Nel 1968 entra in seminario ad Aversa, vi frequenta la scuola media e il liceo classico. Successivamente intraprende gli studi teologici nel seminario di Posillipo, sede della pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Qui si laurea in Teologia Biblica e poi si laurea in Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 1978 entra nell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (AGESCI) dove fa il caporeparto. Nell’aprile del 1981 è ordinato diacono e nel marzo del 1982 è ordinato sacerdote. Dal 19 settembre 1989 è parroco della parrocchia di San Nicola di Bari in Casal di Principe, suo paese natio. Insegna anche materie letterarie presso il liceo del seminario Francesco Caracciolo, nonché religione cattolica presso l’istituto tecnico industriale statale Alessandro Volta di Aversa.

All’inizio degli anni ’90 Casal di Principe ha il record di omicidi di tutta Europa. Il clima di omertà e paura condiziona il territorio impregnato della mentalità camorristica. Don Giuseppe Diana cerca di aiutare la gente nei momenti resi difficili dalla camorra, negli anni del dominio assoluto della camorra casalese, legato principalmente al boss Francesco Schiavone, detto Sandokan. Questo il suo impegno civile. Gli uomini del clan controllano non solo i traffici illeciti, ma si sono anche infiltrati negli enti locali e gestiscono fette rilevanti di economia legale, tanto da diventare “camorra imprenditrice”.

Alle 7.30 del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, don Peppino è assassinato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre si accinge a celebrare la santa messa. Sta uscendo dalla sacrestia, diretto in chiesa verso l’altare dove i fedeli lo attendono per la messa. Ha indosso i paramenti sacri, pronto per la celebrazione, chissà forse concentrato sul rito della messa. Fuori dalla sacrestia si trova di fronte un uomo, sui trent’anni, ha in mano una pistola. Un camorrista che lo affronta con una pistola. La punta su don Peppino e gli spara. I cinque proiettili vanno tutti a segno: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. Don Peppino Diana muore all’istante. Muore il parroco della diocesi di Aversa, colpito da spietati assassini. Questi dunque, l’agguato e la morte. Muore così ventitré anni fa, il 19 marzo, nel giorno del suo onomastico. Muore in chiesa, a dimostrazione che la camorra non ha rispetto per la chiesa e per nessuno, non si fanno scrupolo di nulla. Muore sull’altare. Muore nel giorno della festa del papà: lui che era il padre di una comunità che trovava nelle sue parole la forza di ribellarsi. L’omicidio, di puro stampo camorristico, fa scalpore in tutta Italia.

Sin dall’inizio del processo si è tentato di depistare le indagini e di infangare la figura di don Peppe, accusandolo di essere frequentatore di prostitute, pedofilo e custode delle armi destinate ad uccidere il procuratore Cordova. Quindi non come vittima della camorra, bensì come appartenente al clan. Nunzio De Falco, difeso da Gaetano Pecorella, allora presidente della commissione Giustizia della Camera, è stato condannato in primo grado all’ergastolo il 30 gennaio 2003 come mandante dell’omicidio. Inizialmente De Falco tentò di far cadere le colpe sul rivale Schiavone, ma il tentativo fallì perché Giuseppe Quadrano, autore materiale dell’omicidio, consegnatosi alla polizia, iniziò a collaborare con la giustizia e per questo ricevette una condanna a quattordici anni. Il 4 marzo 2004 la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti come coautori dell’omicidio.

Don Giuseppe Diana fu ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994 nella sua chiesa, mentre si accingeva a celebrare messa. La sua morte non è stata solo la scomparsa di una persona vitale, di un capo scout energico, di un insegnante generoso, di un testimone d’impegno civile. Uccidere un prete, ucciderlo nella sua chiesa, ucciderlo mentre si accingeva a celebrare messa, è diventato l’emblema della vita, della fede, del culto violati nella loro sacralità. Il messaggio, l’impegno e il sacrificio di don Peppe non possono essere dimenticati.

Don Peppino aveva studiato a Roma e lì doveva rimanere a far carriera, lontano dal paese, lontano dagli affari sporchi, una carriera clericale. Decise all’improvviso di tornare a Casal di Principe, forse con la sensazione di dover fare qualcosa e di non trovare pace finché non la realizza. Il giorno del suo onomastico, il 19 marzo, mattina presto, si era vestito con gli abiti talari, si stava preparando per celebrare la messa. Aveva solo trentasei anni. Un uomo di trentasei anni ammazzato, che non sentiva più di essere prete senza poter raccontare. Questo suo non tacere, questa sua incapacità di silenzio, di denunciare fu la sua condanna a morte. Gli avevano mirato alla faccia. Un uomo entra in chiesa, lo raggiunge in sacrestia e gli spara cinque colpi in faccia. Si è recato in chiesa don Peppe per celebrare la messa e non è più tornato, il 19 marzo, quel tragico giorno. Lo scopo era eliminare un uomo simbolo, un uomo portatore di valori positivi. Era un prete scomodo che faceva della sua lotta alla camorra un impegno quotidiano. Una camorra infame che addirittura fa fuoco in una chiesa per colpire un sacerdote. Una violenza sanguinaria delle cosche per colpire a morte un parroco che ha lottato in prima persona e che ha pagato con la vita il coraggio di schierarsi contro la malavita, in uno dei luoghi più insanguinati.

19 marzo 1994 il clan dei Casalesi uccide per la prima volta un prete, si chiama don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe, giovanissimo sacerdote della Chiesa di San Nicola di Bari. Lo uccide nella sua chiesa per metterlo a tacere, nella chiesa di cui era parroco. Cinque pallottole ne hanno spento per sempre la voce terrena. Una voce che predicava e denunciava. Lui che aveva deciso di non rimanere fermo di fronte a quel che vedeva. Lui che aveva deciso di resistere ed opporsi.

La gente ha paura di parlare, di esporsi, di farsi vedere. Nessuno si permetteva di pronunciare il nome del clan dei Casalesi, quasi non esistesse. Sul luogo del delitto c’è assoluta assenza di persone. Non c’era nessuno. Come se la gente avesse avuto paura di affacciarsi. Una grande paura nel paese. Una cappa di silenzio all’esterno della parrocchia dove all’alba il killer aveva sparato in faccia al povero don Peppino.

La sera stessa dell’omicidio la gente scende in piazza contro la criminalità. Un fiume di persone silenzioso e commosso marcia per le strade di Casale. Ai funerali c’era tutta la città e dai palazzi pendono lenzuoli bianchi in segno di lutto e di protesta. C’è sbandamento, scoramento. Non credevano si potesse arrivare a tanto. C’è paura e tensione. C’è ancora incredulità. Nessuno riesce a capacitarsi se quello che si sta vivendo è un sogno, oppure la dura realtà. Il paese intero è sbigottito. Migliaia di persone arrivano per seguire il corteo. Tutto il paese è pieno di lenzuoli bianchi, esposti in segno di lutto e di protesta contro la violenza. Il corteo è tutto un pianto. I suoi giovani, profondamente scossi, lo ricordano come una persona meravigliosa, che dava ottimi consigli. Casal di Principe, di certo abituata alla violenza, non si capacita che possa essere stato assassinato un prete. Tutto il paese piange don Peppino, così crudelmente colpito. Un altro martire ucciso per difendere i valori della sua fede.

Don Diana non era solo testimonianza, ma azione. In lui maturò un forte impegno sociale per liberare la sua terra dalla morsa asfissiante della camorra. Un impegno concreto di cui possiamo essere fieri. Nella sua celebre lettera “Per amore del mio popolo non tacerò!” puntava il dito contro lo Stato, debole e colluso con le mafie. Don Diana accusava la politica quando erano pochi i politici che parlavano di mafia. Anzi, molti sostenevano addirittura che la mafia non esisteva.

Grazie al suo impegno nella società era riuscito a sottrarre molti giovani alla manovalanza criminale, per questo è stato punito don Peppe, un uomo il cui messaggio di legalità resta impresso ancora oggi. La voglia di giustizia, la voglia di cambiare lo portò a lottare con impegno e con capacità per saper spezzare il cerchio dell’indifferenza. Con la sua carica di entusiasmo ci metteva tutta l’energia. Con lo scritto e la parola si era posto a capo della comunità parrocchiale e cittadina per il loro riscatto. Era un uomo e un prete. Un prete con il coraggio di dire forte “Basta”: la parola contro i meccanismi di potere. Un uomo, un martire, un sacerdote che dall’altare spesso gridava contro i clan: “Per amore del mio popolo non tacerò”. Un uomo di chiesa morto per amore del suo popolo. Un martire in terra di camorra.

di Maria De Laurentiis

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