Da sbirro a secondino. Don Ciotti eletto sbirro dalla mafia.

A Locri, così è stato etichettato Don Ciotti: “Don Ciotti sbirro, più lavoro meno sbirri”, “Don Ciotti sbirro, siete tutti sbirri”, “Don Ciotti sbirro e più sbirro il Sindaco”.

Scritte con vernice sui muri della cittadina calabrese. Scritte ingiuriose lasciate sui muri di Locri, provincia di Reggio Calabria. Circa dodicimila anime. Locri, dove la ndrangheta la respiri da mattina a sera. Peggio del fumo delle sigarette, almeno quello si vede e lo eviti. Le esalazioni ndranghetiste non si vedono ma riempiono i polmoni, provocando il cancro che porta alla morte civile.

21 marzo 2017 a Locri si svolge la manifestazione della XXII Giornata della memoria e dell’impegno organizzata da Libera, l’associazione di Don Luigi Ciotti. Un corteo imponente di oltre 25mila persone. Ospite d’onore il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nell’ambito ha incontrato i familiari delle vittime innocenti di mafia. Chi meglio di lui può capire: suo fratello Piersanti fu vittima di mafia.

Non è un caso che a lanciare insistenti denunce contro un male così radicato, siano due figure di riferimento: una istituzionale, il presidente della Repubblica; e una religiosa, Don Ciotti. Fin dal suo insediamento Mattarella ha puntato il dito contro corruzione e mafia. Tuonano potenti anche le parole di Don Luigi Ciotti. Parole oggi più forti. Sferzanti e originali. In prima fila sempre contro la corruzione. Appelli continui contro un “cancro” annidato fin dentro la Chiesa stessa. È la sua più grande battaglia, il suo impegno è incessante. Una società civile più unita su obiettivi condivisi.

Mattarella, l’uomo, inizia così: “I mafiosi non hanno senso dell’onore o del coraggio. I loro sicari colpiscono con viltà persone inermi – continuando – le mafie, non risparmiano nessuno, uccidono, certo, chi si oppone ai loro interessi criminali. Ma non esitano a colpire chiunque diventi un ostacolo al raggiungimento dei loro obbiettivi. Che sono denaro, potere, impunità. Per questo motivo, la lotta alle mafie riguarda tutti. Nessuno può dire: Non mi interessa. Nessuno può pensare di chiamarsene fuori”.

Accanto a lui Don Ciotti, un prete da anni in prima linea contro le mafie. Un prete diverso. Un prete fuori dalle sagrestie ma dentro i territori permeati dai miasmi delle mafie di qualunque origine esse siano, siciliane piuttosto che calabresi. Napoletane, piuttosto che pugliesi. Un uomo molto deciso. Un oratore impetuoso, le sue parole vanno dritte al punto senza tanti fronzoli. Parole di verità e di giustizia. Un sacerdote coraggioso e votato al rinnovamento sociale ha mobilitato la popolazione, scatenando contro il crimine organizzato quasi un’offensiva.

Oggi quella di Don Ciotti non è più una voce isolata. Lui sente di dover parlare chiaro. Sente, in quanto sacerdote, il dovere di creare un nuovo tipo di coscienza contro la mafia usando la forza persuasiva della sua eloquenza. Forza trainante di questo movimento di protesta contro il crimine organizzato. Guidati da Don Ciotti come per una moderna crociata, i cittadini, tutti insieme, uniti, hanno dichiarato guerra alla malavita. La gente è scesa in campo contro la mafia con una determinazione che sarebbe stata impensabile qualche tempo fa. Viene da loro, da questo essere uniti, dal ritrovarsi tutti insieme, da quel “noi” di cui parla Don Ciotti, l’esempio che fa sperare in una effettiva possibilità di estirpare una volta per tutte il cancro della mafia. E questa è una cosa magnifica. Significa che ce la stiamo facendo, che, uniti, possiamo far cessare il regno di terrore e di morte della mafia.

Don Ciotti parla e dice: “Che bello ritrovarsi insieme. Che bello, Presidente, che lei sia con noi. Che bello questo “noi” di famigliari delle vittime, cittadini, giovani, associazioni, sindaci, magistrati, vescovi, sacerdoti, suore, sindacati, rappresentanti delle istituzioni, dei carabinieri, della polizia, della scuola e dell’università. Ci siamo sempre impegnati per questa collaborazione liberamente dettata dalle coscienze, abbiamo sempre creduto che solo unendo le nostre capacità, le nostre competenze, la speranza di cambiamento diventa forza di cambiamento.
Ora – lo dico a tutti voi che siete venuti per incontrare il Presidente e i famigliari delle vittime – questo procedere uniti verso lo stesso obbiettivo è più urgente che mai. Mettiamo da parte le divisioni, i protagonismi, mettiamoci di più in gioco per il bene comune, per la libertà e la dignità di questo Paese. Lo dico con convinzione. Ci sono stati progressi – da riconoscere e valorizzare – ma anche ritardi, omissioni, promesse non mantenute. Misure urgenti sono state rinviate, o approvate solo dopo compromessi al ribasso. Insieme alle mafie, il male principale del nostro Paese resta la corruzione. E corruzione significa questo: che tra criminalità organizzata, criminalità politica e criminalità economica è sempre più difficile distinguere. Ce lo dicono anche quelle inchieste dove i magistrati faticano a individuare la fattispecie del reato. Hanno in mano strumenti giuridici istituiti prima che quest’intreccio criminale emergesse con forza. Dobbiamo rompere questo intreccio! Le mafie non uccidono solo con la violenza: vittime sono i morti, ma vittime sono anche i morti vivi, le persone a cui le mafie tolgono la speranza e la dignità. Il lavoro, la scuola, la cultura, i percorsi educativi, i servizi sociali restano il primo antidoto alla peste mafiosa. La nostra Costituzione è il primo dei testi antimafia! Ecco allora che la memoria non può essere un esercizio retorico. I vostri cari non sono morti per una targa, una corona di fiori, un discorso celebrativo. Sono morti per la nostra libertà, per un ideale di giustizia e democrazia che abbiamo il compito di realizzare. Un’ultima parola voglio rivolgerla agli uomini e alle donne della ‘ndrangheta, delle mafie. Ma che vita è la vostra?! Papa Francesco, incontrando i famigliari delle vittime, vi ha chiesto in ginocchio di convertirvi, di abbandonare il male. Non oso mettermi alla sua altezza, ma una cosa sento di potervela chiedere. Tanti famigliari hanno perso i loro cari e non hanno avuto nemmeno la possibilità di avere il loro corpo, di piangere sulla loro tomba. Uomini e donne della ‘ndrangheta, delle mafie: diteci almeno dove li avete sepolti!
Vi chiedo – e vi auguro – di avere questo scrupolo, questo sussulto di coscienza. Può essere l’inizio di qualcosa di diverso, di un percorso di vita e non più di morte”.

Parole messe insieme sul filo conduttore del “Noi”. Prete testardo. Incita a mettere da parte le divisioni, i protagonismi e concorrere tutti insieme per il bene comune, per la libertà e la dignità del nostro Paese. Parole che mai nessuno aveva osato dire a Locri.

Il giorno prima lo avevano avvisato. Sui muri della cittadina calabrese appaiono frasi contro di lui. Iniziano sempre con le scritte. Scritte che sottintendono in un certo senso che il prete è il nemico pubblico numero uno. “Don Ciotti sbirro, più lavoro meno sbirri”, “Don Ciotti sbirro, siete tutti sbirri”, “Don Ciotti sbirro e più sbirro il Sindaco”. Colpisce la parola “sbirro” detta ad un prete. Sbirro.

Questa parola viene comunemente usata per indicare con tono dispregiativo un agente di polizia. Venivano definiti sbirri nei tempi passati certe guardie che spesso erano il braccio armato del signorotto di turno che li impiegava per imporre il suo potere sul popolo inerme. Colpisce questo in quelle frasi. Dare dello sbirro ad un prete e identificarlo come braccio armato del signorotto di turno che lo usa per imporre il suo potere. Prete sbirro. Sbirro della fede. Questo sì. Quel messaggio intimidatorio ci piace interpretarlo così: Don Ciotti sbirro di Dio, per imporre il bene comune, per la libertà e la dignità del nostro Paese.

La ndrangheta ha fallito. Prete testardo. Hai vinto tu!

Da Locri a Palermo, da sbirro a secondino. Dalla Calabria alla Sicilia. Dalla ndrangheta alla mafia. Altra città, altra scritta sul muro contro il fondatore dell’associazione Libera: “Sbirri siete voi, Don Ciotti secondino”. Vernice nera. Quartiere Noce. Fatta su un muro all’ingresso di una villetta pubblica intitolata a Rosario Salvo, l’autista di Pio La Torre che fu ucciso insieme al segretario regionale del Pci il 30 aprile 1982.

“Sbirri siete voi, Don Ciotti secondino” scritto su quel muro, simbolo di lotta alla mafia, rende il messaggio ancor più intimidatorio. Poco distante un’altra scritta: “Dalla Chiesa assassino” con tanto di falce e martello e firma BR. Prete testardo.

Allo stesso modo della parola “sbirro”, colpisce la parola “secondino”. Don Ciotti secondino. Perché secondino? Secondino è il termine con cui vengono chiamati gli agenti di polizia penitenziaria. Il termine indica qualcuno che segue qualcun’altro, spesso gerarchicamente e quindi assume il ruolo di aiutante. Il termine secondino prende piede in ambiente carcerario, in cui si identifica l’agente penitenziario come secondo del capo del carcere.

Don Ciotti secondino. Don Ciotti secondino di Dio. Quel messaggio intimidatorio ci piace interpretarlo così: Don Ciotti secondino di Dio, per imporre il bene comune, per la libertà e la dignità del nostro Paese.

Prete testardo, sbirro e secondino… di Dio.

di Maria De Laurentiis e Eligio Scatolini

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