Conclusione del processo Quater. L’assoluzione per prescrizione di Vincenzo Scarantino

In questi giorni di aprile, anno 2017, il processo Borsellino quater è arrivato alla sua definizione e, sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, considerato un teste attendibile, sono state emesse sentenze di condanna all’ergastolo per Salvatore Madonia e Francesco Tutino, rispettivamente quale mandante ed esecutore della strage, a dieci anni, per calunnia, per Calogero Pulci e per Francesco Andriotta mentre per Vincenzo Scarantino, per il quale erano stati richiesti dalla procura otto anni e sei mesi di reclusione e dall’avvocato Repici l’assoluzione, grazie al riconoscimento dell’attenuante per essere stato indotto a dire il falso,  si è ritenuto non doversi procedere in quanto prescritto il reato di calunnia pluriaggravata.
Si riconosce, finalmente, nella sentenza emessa, a chiare lettere, che quanto affermato da Vincenzo Scarantino in merito alla strage di via D’Amelio era frutto solo di racconti non supportati da fatti, dandosi pieno credito alla ricostruzione operata sulla testimonianza di Spatuzza.
Per dirla in breve Scarantino non ha mai raccontato il vero, mentre vere erano le sue ritrattazioni. Innocenti sono finiti in carcere per sua causa. Anni e anni di indagine sono stati spesi ricercando una verità che si basava su presupposti falsi. Il fatto che però colpisce è che, invano, Vincenzo Scarantino ha tentato più volte di far rilevare che le sue iniziali dichiarazioni non corrispondevano a quanto realmente accaduto.

Vincenzo Scarantino nelle sue ritrattazioni, la prima risale al 1995, ha anche indicato il perché delle sue falsità, indicando chi lo ha “costretto” a dichiarare il falso. Ha parlato di pressioni ricevute.
Perché non è stato creduto? Uomini da lui accusati, in confronti diretti, contestavano le sue affermazioni. Si è permesso che si attuasse un depistaggio, nella convinzione di aver preso l’esecutore materiale, il quale, però, con costanza ha continuato negli anni a ritrattare.

Per meglio chiarire il senso delle dichiarazioni rese da Scarantino nel corso del processo Borsellino quater ne riportiamo una brevissima parte, tratta da un’udienza tenutasi a Caltanissetta il 12 maggio 2016.
Scarantino, quel giorno, viene interrogato anche sui colloqui investigativi. Rispondendo al giudice egli ricorda di alcune pause che gli erano concesse nell’ambito degli interrogatori, quando lui non aveva ricordi chiari, che servivano a rinfrescare la sua memoria per le dichiarazioni che successivamente era chiamato a rendere. E cita i nomi di coloro i quali lo seguivano e cosa accadeva: “… quando non sapevo cosa dire uscivo, si interrompevano gli interrogatori e il personale di Palermo mi facevano ricordare le cose. …” … ”  e poi mi confrontavo con il dottor Ricciardi, il dottor Bo… a parte che io della strage non sapevo niente e il dottor Ricciardi lo sapeva, io gliel’ho detto a Jesolo, a Lido dei pini. Che dovevo dire, io non ricordavo niente”.
Sull’officina di Orofino, dove sarebbe stata portata la 126 da imbottire di esplosivo, Scarantino dichiara che non sapeva neanche della sua esistenza, pur conoscendo la via, e di aver fatto dei sopralluoghi con personale della polizia di Stato. Con loro sarebbe andato a verificare dove si trovava l’officina di Orofino, poi a Boccadifalco, dove gli stessi uomini della polizia di Stato gli avrebbero mostrato delle foto dell’officina. In quell’occasione Scarantino ricorda di aver ripetuto che di quella macchina rubata non sapeva niente. E fa i nomi di chi lo esortava a parlare …
Nel corso del processo quater i pm reputavano di dover condannare anche Vincenzo Scarantino per calunnia pluriaggravata, in quanto, secondo il loro punto di vista, le ragioni per le quali egli ha dichiarato il falso sarebbero da far risalire ad un tentativo di ottenere un tornaconto personale.
Dall’altro lato l’avvocato Fabio Repici ha invece sottolineato che lo stesso Scarantino ha più volte tentato di ritrattare, nel corso del tempo, senza riuscire a trovare ascolto, e che, inoltre, da anni dichiara di essere stato sottoposto a pressioni, costrizioni, tramite l’uso di minacce o atteggiamenti che, in ogni caso, hanno sortito l’effetto finale di fargli dichiarare il falso, depistando le indagini.
E’ a questo punto, ma forse anche prima, che nascono i molteplici dubbi ancora oggi senza risposta. Da chi è stato voluto il depistaggio? Chi si voleva coprire con quelle false dichiarazioni del collaboratore di giustizia? Si voleva realmente coprire qualcosa o qualcuno? Cosa c’entra in tutto questo la trattativa stato mafia?

di Patrizia Vindigni

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