La notte che mia madre ammazzò mio padre

A volte più che nei film drammatici è in quelli comici che si legge meglio in filigrana la rappresentazione della morte nella nostra civiltà. In quelli drammatici la morte si presenta come un che di inderogabilmente logico, necessario, inevitabile e viene a costituire il nocciolo di senso esistenziale più amaro e nello stesso tempo più esteticamente folgorante. Quando la morte diventa invece il soggetto principale di una commedia, essa viene immediatamente sottoposta a un intreccio di finzione, a una mirabolante messinscena che svela il suo profondo carattere di rito esorcistico. Come in questa black comedy iberica “La noche che mi madre matò a mi padre” di Inés París, in programma al Festival del Cine Español di maggio e giugno a Roma e in alte città italiane. il tema della finzione è qui già nell’antefatto. Una moglie attrice a corto di ingaggi, Isabel; il marito scrittore e sceneggiatore, Angel; la ex moglie di questi e co-sceneggiatrice Susanna: invitano a cena un celebre attore argentino Diego Perretti, dal cui giudizio e partecipazione dipenderà la realizzazione di un film basato su copione scritto da Angel e Susanna. Alle spalle di Isabel, Angel e Susanna c’è però un funambolico groviglio familiare. L’attrice ha un ex marito, Carlos, da cui ha un figlio. Susanna e Angel, hanno una figlia naturale. Isabel e Angel hanno una piccola figlia adottiva. Tutti questi figli sono ora tutt’insieme a sciare. Diego Perretti è davvero un celebre attore argentino che nel film interpreta sé stesso. Dentro la discussione sulla finzione del progetto filmico da realizzare, irrompe la realtà dell’intreccio familiare dei protagonisti, ma vi entra anch’esso in veste di finzione. Una finzione che per non sembrare tale deve mettere in scena agli occhi degli altri proprio la morte. La morte appare infatti allo sguardo della nostra coscienza come la più seria e incontrovertibile delle evidenze. Se un’attrice riesce a mettere in scena e a rendere credibile una finzione di morte nella vita reale, tanto più riuscirà a essere credibile sullo schermo. Una commedia per essere davvero tale, però, non può rappresentare seriamente la morte, perché altrimenti sarebbe un dramma. La morte così deve essere esorcizzata. Esorcizzata sia dentro la scena cinematografica, sia come senso del tragico esistenziale. La commedia deve infatti divertire, ossia de-vertere, deviare lo sguardo e la coscienza dalla serietà della vita, della fatica, del lavoro quotidiano. Il giorno lavoro, produco, studio, mi impegno seriamente, drammaticamente in qualcosa, la sera mi diverto. D’altronde cosa meglio si oppone alla rappresentazione della morte, ossia del tragico, se non la rappresentazione della vita, della gioia, del riso, del comico? Ecco cosa mette davvero in scena questo film, aldilà del giudizio estetico che se ne vuole dare.

La commedia, però, deve anche mettere in berlina, sbeffeggiare un costume, un’abitudine, una falsa convinzione sociale. Tanto più una commedia sferza una farsesca abitudine o acritica credenza sociale diffusa, tanto più essa si dimostra efficace. La finzione della morte e il suo immediato esorcismo è il meccanismo dominante di questo film, dato che esso viene reiterato comicamente, buffonescamente più volte, come un tric-trac nelle mani di un bambino capriccioso. Uno dei personaggi dell’intreccio familiare credibilmente muore, rivive, di nuovo muore e così via, venendo anche fatto scomparire come nelle pagine di uno dei romanzi gialli e dei copioni cinematografici scritti da Angel. E questo fino alla scena finale – di esplicita finzione filmica. Così l’esorcismo comico della morte diventa al tempo stesso una delirante presa in giro di tale credenza dominante della nostra civiltà.

di Riccardo Tavani

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