Boris Giuliano: Palermo – Milano andata e ritorno

Ci sono persone che, pur completamente immerse nel fango generato da chi tenta di imporre con la violenza, i soprusi e le minacce il proprio dominio, per indifferenza o quieto vivere girano la testa dall’altra parte e fanno finta di non vedere; e ci sono poi quelle persone che, pur avendo avuto la possibilità di affrancarsi da quella dura realtà, non riescono a stare a guardare. E’ la storia eroi moderni. E’ la storia di Boris Giuliano. Nato a Piazza Armerina il 22 ottobre 1930, trascorse parte della sua infanzia in Libia al seguito del padre, sottoufficiale della Marina militare. Rientrato a Messina nel 1941, all’età di undici anni, vi rimase fino alla laurea in giurisprudenza, che gli consentì di trovare un impiego in una piccola società manifatturiera. Successivamente si trasferì con la famiglia a Milano, dove intraprese la carriera dirigenziale. Eppure, nonostante la famiglia, un lavoro da dirigente, nonostante fosse un uomo apparentemente realizzato, Boris covava una strana inquietudine. Il suo grande senso del dovere e la perenne ricerca della giustizia non gli consentivano di far finta di non vedere; la sua voglia di combattere in prima linea lo portò, nel 1962, a lasciare la tranquillità di un lavoro d’ufficio per vincere un concorso come commissario di polizia. La svolta decisiva ci fu nel 1963 quando, il 30 giugno, un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di tritolo provocò la morte di sette carabinieri in quella che fu ribattezzata come la “strage di Ciaculli”. Fu allora che in Boris maturò la consapevolezza di quello che, forse, aveva sempre saputo ma che non aveva mai compreso fino in fondo: il suo destino era combattere per la sua terra, la Sicilia. Chiese e ottenne il trasferimento a Palermo, dove fu assegnato alla squadra mobile, inizialmente presso la sezione omicidi. Le sue brillanti doti investigative lo portarono, ben presto, a ricoprire il ruolo dapprima di vice dirigente, e poi di dirigente al posto del suo collega e amico Bruno Contrada, accusato di collusione con la mafia. Il suo apporto fu decisivo per introdurre nuovi metodi investigativi: fu il primo poliziotto a specializzarsi presso l’Accademia FBI di Quantico, in Virginia, e a capire l’importanza della collaborazione tra forze di polizia internazionali; introdusse metodi innovativi, come le indagini sui conti correnti bancari e la tutela della “scena del crimine”, a preservazione di eventuali prove. Fu il primo, infine, ad intuire l’importanza della Sicilia nel traffico internazionale di droga, in quella che poi fu definita come operazione “Pizza Connection”. Boris, infatti, aveva compreso che proprio nella sua terra l’oppio veniva trasformato in eroina prima di essere spedito negli Stati uniti, e che questo mercato era strettamente controllato dalla mafia. Le prove arrivarono nel 1979, circa quindici anni dopo il suo ingresso in polizia, quando all’aeroporto di Palermo furono rinvenute due valigie con cinquecentomila dollari in contanti, il pagamento di una partita di eroina da parte di famiglie mafiose statunitensi a quelle siciliane; poco dopo gli investigatori americani sequestrarono a New York una partita di eroina pari a dieci miliardi di lire. Sempre nello stesso periodo Boris scovò a Palermo un covo della mafia, dove vennero ritrovati armi, foto che ritraevano vari boss corleonesi e gli effetti personali di Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina. Quest’ultimo ritrovamento, assieme a quello avvenuto pochi mesi prima, aveva permesso l’arresto di molti mafiosi appartenenti al gruppo dei Corleonesi. Ma, a quel punto, Boris si era spinto troppo oltre. Era riuscito a gettare delle basi concrete per una dura lotta a Cosa Nostra, e questa non era rimasta a guardare. Dapprima le minacce, con telefonate anonime al centralino della squadra mobile; infine, la mattina del 29 Luglio, l’agguato. Boris aveva appena ordinato un caffè presso il bar Lux quando fu raggiunto da sette colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata. Per il suo assassinio vennero condannati come mandanti boss del calibro di Totò Riina, Bernardo Provenzano e Filippo Marchese, e come esecutore materiale proprio quel Leoluca Bagarella perno centrale delle sue indagini. Quanto il lavoro di Boris Giuliano fu all’avanguardia e propedeutico a quello portato avanti in seguito da Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che condusse al maxi-processo, fu chiaramente espresso da Borsellino nell’ordinanza di rinvio a giudizio di quest’ultimo: “Deve ascriversi ad ennesimo riconoscimento della abilità investigativa di Giuliano se quanto è emerso faticosamente solo adesso, a seguito di indagini istruttorie complesse e defatiganti, era stato da lui esattamente intuito e inquadrato diversi anni prima”….” devesi riconoscere che se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano, probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati”. Parole che suonano come macigni, e che si rivelarono triste presagio di quanto ancora doveva accadere.

Di Leandra Gallinella

Print Friendly, PDF & Email