La fu Mafia Capitale

Mafia Capitale non è mafia. Dopo quasi due anni e mezzo di dibattimento la sentenza di primo grado della X sezione penale di Roma, presieduta dal giudice Rosanna Ianniello ha stabilito che quella capeggiata da Massimo Carminati è un’associazione criminale semplice, smontando di fatto quello che era stato il perno dell’impianto accusatorio della Procura di Roma.
Esclusa l’associazione mafiosa, la sentenza riconosce l’esistenza di due rami interni all’organizzazione criminale: uno, quello dedito ad azioni violente e gravitante intorno a Massimo Carminati e ai due fedelissimi Riccardo Brugia e Matteo Calvio e l’altro, quello di impostazione imprenditoriale, col Nero sempre in prima fila affiancato da Salvatore Buzzi.
Il meccanismo messo su dai due blocchi dell’associazione è quello di una sorta di catena di montaggio della corruzione. Il mondo di mezzo penetrava, corrompendo, il mondo di sopra – quello della politica, dell’imprenditoria, della finanza – col fine di far ottenere appalti agli imprenditori riconducibili al clan servendosi, se necessario, della giusta dose di violenza utile ad abbattere la concorrenza. Questa meccanismo, portato avanti con sistematicità ( tanto che politici e funzionari percepivano una vera e propria busta paga) ha fatto sì che la Cooperativa di Salvatore Buzzi crescesse a dismisura e, con essa, le ricchezze di Massimo Carminati ( socio occulto della 29 Giugno).
Alla luce di quanto ricostruito, il verdetto dichiara colpevoli 41 dei 46 imputati, per un totale di quasi tre secoli di pena.
Le condanne più dure sono quelle inflitte a Carminati e Buzzi, rispettivamente 20 e 19 anni di reclusione non più, tuttavia, per il reato di 416 bis ma di 416 ( associazione a delinquere semplice) con Carminati “delinquente abituale”, trasferito appena pochi giorni fa nel carcere di Oristano e ormai fuori dal regime di carcere duro. Dietro le sbarre restano anche Salvatore Buzzi, Riccardo Brugia, Matteo Calvio e Fabrizio Franco Testa mentre per altri 17 imputati è stata disposta l’immediata scarcerazione.
Buona parte del mondo politico a destra e a sinistra esulta ( “ D’ora in poi chi accosterà la parola mafia a Roma dimostrerà di non amare la città”, dichiara Roberto Giachetti) mentre immediato parte l’inevitabile attacco alla Procura di Roma, che sull’associazione mafiosa aveva costruito l’intero impianto accusatorio ( “Bisognerebbe chiederne conto alla Procura”, afferma Maurizio Gasparri).
Certo le condanne sono dure, pesanti. Il Tribunale ha di fatto riconosciuto tutti gli episodi contestati e ne ha, stante le condanne, riconosciuta la gravità. Il punto è che la condanna è per un capo d’imputazione diverso. Si è faticato molto ad accettare che a Roma esistessero sacche di mafia, di camorra o di ‘ndrangheta. Oggi basta tener d’occhio i continui sequestri messi in atto nella Capitale per rendersi conto di una situazione assolutamente evidente. Questo accade perché, forse, quelle mafie si sono mostrate a noi nella forma con cui tradizionalmente la mafia ha rappresentato sé stessa.
Però la mafia negli anni è cambiata, si è evoluta e adattata ai mutamenti sociali. La mafia è cresciuta quando ha abbandonato la via della violenza più eclatante e ha iniziato a mangiare pezzi di Stato attraverso la via più silenziosa della corruzione. Perché quella della corruzione è una zona grigia, si può essere corruttori o corrotti senza essere mafiosi. Per Mafia Capitale l’elemento fondamentale per il declassamento da associazione mafiosa a semplice associazione criminale è stato il non riconoscimento di una carica intimidatoria da parte dei corruttori.
“Per noi quel gruppo criminale si avvaleva del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà. Non abbiamo cambiato idea”, dichiara il Procuratore aggiunto di Roma, Michele Prestipino. “ Nonostante la sentenza della Corte d’Assise di Roma, a mio parere quella di Carminati e Buzzi rimane un’associazione di stampo mafioso” afferma la Presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi.
Una sentenza è una sentenza e in quanto tale va rispettata. Certo è che dei fatti emersi dalle indagini nulla è stato negato e che a non esser stata riconosciuta è stata piuttosto la loro “qualificazione giuridica”, come spiega anche il Procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone.
Le pene inflitte sono estremamente severe, eppure resta l’amara sensazione che non solo chi di dovere, ma la società civile tutta, non sia stata in grado di rimanere al passo coi cambiamenti della mafia. Che questa sentenza sia figlia di una arretratezza culturale che ci spinge a credere che la mafia debba necessariamente somigliare sempre a sé stessa e restare ferma all’immagine che abbiamo conosciuto tra gli anni Settanta e Novanta, col rischio di sottovalutare ciò che non abbiamo ancora imparato a riconoscere.

Di Martina Annibaldi

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