Lontani da tutti, perché fanno paura.

L’estate degli ultimi, degli invisibili ai nostri occhi.
Nella fretta che precede la partenza per le vacanze, chiusi nella nostra presunta sopravvivenza alla calura, nel nostro egoismo di massa, ci guardiamo bene dal guardare al suolo, verso quelli che rappresentano la nostra paura di finire più in basso e, quasi in apnea per il terrore della loro puzza, ci affrettiamo ad andare oltre, per non avere niente a che fare con loro: la paura d’interagire con questa massa informe, fatta di tanti singoli, sparuti esempi di perdenti, ci rende ancora più deprecabili. E’ la cosiddetta “aporofobia”, cioè la paura della povertà, il rifiuto del povero, che influenza il nostro comportamento e indurisce il nostro animo, rende selettiva la nostra vista: il timore di poter finire un giorno come loro, di poter fallire anche noi, li rende praticamente invisibili ai nostri occhi.
Nelle grandi città rese ancor più desolate dal vuoto delle partenze, la loro presenza spicca ancor più, poiché viene meno il loro mimetismo tra la folla. In giorni in cui si parla di risparmiare l’acqua pubblica per gli utenti (paganti), qualche benpensante propone e dispone la chiusura delle fontanelle, invece di fornirle di un semplice rubinetto, dimentico di questa umanità che grazie a quell’acqua gratuita ha ristoro dal caldo, può dissetarsi, lavarsi e rimanere ancora legato al cosiddetto mondo civile. E con gli esodi estivi, viene meno anche quel poco di solidarietà che questi ultimi possono ricevere da chi, di passaggio dal lavoro, dalla spesa, dalla scuola dei figli, lascia loro qualcosa. E per fortuna la cassazione, dirimendo un caso per la città di Palermo, ha decretato che vivere in strada non è cosa multabile, se a seguito d’impossibilità economica, anche se c’è da chiedersi se un tale buon senso avesse bisogno di 3 gradi di giudizio…
I “senza fissa dimora” (barboni, clochards, homeless…) sono in tutti i paesi, ciascuno col proprio nome caratteristico e con quello “ufficiale” per i documenti di Stato, uniti solo dal filo comune del disagio, perché le cause del loro decadere in fondo alla scala sociale, ha davvero tante ragioni, forse una per ogni sfortunato: abusi, tossicodipendenza o alcolismo, disastri naturali, crisi aziendali, debiti, tracolli economici, perdita della casa, sfasciamento della famiglia, disagio mentale… Il dato su chi vive per strada, così come la loro esistenza, è piuttosto approssimativo: dati UNICEF alla fine del secolo scorso stimavano che negli USA ce ne fossero 750000 e nella UE addirittura 3 milioni, ma negli altri paesi, anche in quelli emergenti (Brasile, India) il dato è enormemente più grande e si parla di milioni di bambini condannati a vivere per strada. Inoltre il dirompente effetto della crisi globale ha sicuramente alterato queste cifre, se si pensa che nella sola città di Roma, a fine 2015 le sole famiglie italiane che avevano perso la casa e che si erano adattate a vivere per strada, in roulottes o anche semplicemente in macchina, erano addirittura raddoppiate, così com’erano raddoppiate le chiamate all’ Help Center della Stazione Termini, da parte dei “senza fissa dimora”, in buona parte italiani. Ma le cifre del disagio, possono raccontare gli effetti secondari degli eventi macroeconomici, non possono raccontare delle condizioni di vita.
Il fenomeno dei clochards, soprattutto se stranieri, non impietosisce, non fa gridare d’indignazione i tutori dell’integrità italiana, perché ancora non serve a strappare voti, non serve a fare dimenticare le incapacità dei governanti, di ogni colore e partito. La cronaca si occupa di loro solo se muoiono per le condizioni in cui vivono (in trafiletti), o per la vigliacca aggressione da parte di qualche branco di annoiati dalla vita facile (qualche spazio in più). E se d’inverno, complice la vicinanza del natale, la pietà per chi rischia di morire assiderato dà loro un poco di visibilità, di attenzione mediatica, d’estate solo dei lungimiranti assessori alla socialità (Milano e Bari) e i volontari della Caritas, regalano loro qualche attenzione, qualche chance per vivere ancora. Magari un tempo bastante loro per riuscire a risollevarsi dalla sfortuna che li ha colpiti, o per riuscire a fare pace coi propri personali demoni, per rientrare nei ranghi di quella “normalità” che li rende di nuovo visibili agli occhi di noi cittadini irreprensibili, ma dallo sguardo mai posato in basso.

di Mario Guido Faloci

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