Slittamento del reale al SalinaDocFest

Una riflessione importante, criticamente produttiva ci consegna l’ultima edizione del Salina Doc Fest, il festival del documentario narrativo, ideato e diretto da Giovanna Taviani. Il titolo di questa undicesima edizione era “Padri e Figli. Verso terre più fertili”. Un titolo che è sembrato alla fine riguardare non solo le vicende narrate ma il modo stesso di narrarle. Ricordiamo che il cinema nasce innanzitutto come presa, ri-presa della realtà esterna che ci circonda. Il primo vero film è infatti un proto-documentario: la ripresa pura e semplice di lavoratrici e lavoratori che escono a fine lavoro dagli stabilimenti cinematografici dei Fratelli Lumiere. Il “reale esterno” è dunque padre, genitore del cinema: genera, mette alla luce del mondo, ossia fa apparire la sua arte. Il “reale” tradizionalmente da documentare attraverso il cinema sembra, però, stia subendo ora uno slittamento da un narrativo tutto esterno a uno sempre più interno, in un processo di nuova generazione o cine-filiazione (speriamo fertile).

La realtà umana, sociale, culturale da raccontare diventa quella chiusa dentro le pareti di casa, della stanza, della mente dell’autore stesso. Il tradizionale documentario va mutando la sua pelle fino ad apparire nella forma di un selfie-mentary, ossia di un selfie fatto non con un mero scatto fotografico ma con una intera lunga ripresa video. I film che maggiormente si sono affermati a Salina lo dimostrano. “The Good Intentions” di Beatrice Segolini e Maximilian Schleubel, vincitore sia del premio del pubblico che di quello della giuria, è il conflittuale interno familiare dell’autrice ripreso tra la cucina, la sala da pranzo – con le figure della madre e dei fratelli – e l’esterno di un maneggio dove vive il solitario, acre padre separato. Anche “Saro” di Enrico Maria Artale, che si aggiudica una Menzione Speciale della Giuria Giovani, narra la vicenda dell’autore nell’incontro con il suo vero padre – fino ad allora a lui sconosciuto –, ripreso in interno/giorno con camera fissa sul divano del loro primo colloquio. “Vita Nova”, di Laura D’Amore e Danilo Monte, vincitore del Premio Siae e di una Menzione per il montaggio della Giuria Giovani, è il racconto della drammatica procreazione assistita vissuta da autrice – soprattutto – e autore, ripresa tra gli ambienti casalinghi, una sala di ginnastica e i laboratori della clinica.

Lo slittamento non è solo spazio-mentale, dall’esteriore all’interiore, ma anche artistico-formale. Il lavoro sulle tradizionali forme del linguaggio cinematografico – inquadrature, panoramiche, sequenze, ecc. – è ridotto al minimo, fino quasi all’afasia iconica. Prevale la macchina fissa e la video inquadratura “piatta”, ossia senza grande preoccupazione di luce e composizione artistica. La nuova forma del “reale interno” tende alla non-forma. È la presa, la resa, la voce della vita personale-interiore così come immediatamente appare, senza più alcun altro significato veicolato dalla composizione artistica dell’immagine. Un unico film – tra i vincitori – si rifà a una tradizione antropologica del “reale esterno” che ha fatto grande la scuola del cinema documentaristico italiano nel mondo. È “Le porte del paradiso” di Guido Nicolás Zingari, che si aggiudica una Doppia Menzione: della Giuria e dell’Associazione Montaggio Cinematografico e Televisivo. È un reportage dal Senegal sulle madrase – le scuole islamiche – della città santa di Touba, conosciuta come la Mecca dell’Africa Occidentale, dove migliaia di adolescenti sono mandati – anche da molto lontano – per imparare a recitare il Corano a memoria e applicarlo nella loro vita quotidiana.

La domanda è: da cosa discende un simile cambiamento? Non si possono che tentare delle prime provvisorie risposte. Una riguarda certamente la tecnologia. Gli strumenti di ripresa e riproduzione video sono diventati talmente agili, versatili, flessibili e smart (intelligenti) che oggi è davvero possibile a un’autrice, a un autore fare tutto da soli: dalla cattura delle immagini, alla loro elaborazione e montaggio in elettronico. Questo specifico livello tecnologico è però solo un aspetto di una dimensione tecno-scientifica più estesa e pervasiva dell’intera realtà attuale. Proprio un film come “Vita Nova” ci fa sprofondare nella dimensione della penetrazione biologica della tecno-scienza fin dentro le cellule dei nostri corpi e dunque anche delle nostre menti, mettendo a “produzione” i nostri stessi tessuti, la nostra stessa pelle emozionale. È tutto il reale stesso a slittare gradatamente ma inesorabilmente dall’esterno sempre più verso l’interno biopsichico umano. Ma forse – proprio a partire dalla riflessione che ci ha offerto il Salina Doc Fest – dovremmo elaborare nuovi concetti e criteri estetici per il cinema del reale e il documentario narrativo di domani.

di Riccardo Tavani

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