Un grande regista, la sua umanità e la prima compagnia teatrale in carcere

Sono seduta a terra. Sotto di me cemento grigio,le spalle appoggiate a delle sbarre di ferro. Intorno un perimetro di mura di mattoni alte, riempito da un pezzo di cielo estivo. Davanti a me dell’acqua, una vasca larga e poco profonda e, un po’ più in fondo, tante persone al centro di questo cortile che applaudono e non smettono di farlo.

Applaudono mentre io sono lì, per terra, appoggiata a quelle sbarre e non ce la faccio ad unirmi a loro per le emozioni appena provate che mi paralizzano come, forse, mai accaduto prima.

È appena finito, infatti, il preludio dell’ultimo spettacolo: “Le parole lievi” de La Compagnia della Fortezza, la compagnia teatrale che Armando Punzo ha creato quasi trenta anni fa (lo saranno nel 2018) all’interno del Carcere di Volterra. Il primo esperimento e progetto di di teatro in carcere in Italia.

 Il cortile è, infatti, quello della Fortezza medievale che ospita la struttura, quello dell’ “ora d’aria”. Ora d’aria per detenuti particolari dato che qui, in questo gigante medievale appoggiato sulla collina delle crete da secoli, sono ospitati condannati per pene di lungo periodo.
 In questo cortile ogni anno si ripete il miracolo creato da un uomo di teatro (insieme all’associazione Carte Blanche) che ha pensato di fare teatro dove mai si sarebbe pensato e, soprattutto, con chi mai si sarebbe potuto immaginare. Ogni due anni, da ventinove anni, un parto.
 La nascita di un “progetto”, lo studio di una nuova “scena”per rappresentare il proprio mondo. Ancora una volta, alla ricerca continua di qualcosa dove è il viaggio stesso verso l’idea che affascina, il non stare immobili. Quest’anno, dopo Shakespeare la scelta è andata su Borges e sulla sua opera.
La scelta, con Borges, di raccontare parole che cambiano, inventano luoghi, immagini, personaggi che si creano da soli ogni volta nel momento in cui si immaginano, che si modificano appena pronunciate.
Insomma, non avevo mai visto la Compagnia della Fortezza all’opera.. eppure amiamo il teatro, immensamente. Ma qui, stavolta, è una sensazione grande, forte, mai provata.
Quello che vedi sei tu, ti entra dentro con gli sguardi fissi, i volti unici, dipinti, di tutti i partecipanti, volti diversi uno dall’altro come l’umanità intera che rappresentano, volti che ti dimentichi appartenere al mondo “chiuso” di quel carcere, perché l’arte, meravigliosa e unica, in quel momento li trasfigura e diventano altro.
Liberi, oltre quelle mura. Forse, per assurdo, oggi anche più di noi che siamo li a guardare. Mi dirà poi uno di loro, Ibrahim originario del Senegal, chiacchierando nel cortile dopo lo spettacolo: “A noi Armando (n.d.r. Punzo) non ha mai chiesto perché siamo qui. Mai. C’è il teatro e se tu scegli di farlo c’è il teatro, e basta. Io non volevo sei anni fa, oltre la scuola di base non avevo certo mai letto un libro. Lui mi ha detto – Non importa. Tu vieni, e ascolta -“.E Ibrahim andò ad ascoltare, sei anni fa.
È andato, ed è accaduto che ha attraversato Shakespeare, diventando Otello mentre, in scena, parla di Borges e lo fa suo per esserne parte in scena, completamente, come ho visto dal vivo.
Collabora con gli altri alla stesura dello spettacolo che troverà la versione definitiva nel corso dei prossimi mesi. Crescendo, modulandosi col viverlo di chi lo penserà ogni giorno, grazie a Punzo e al suo straordinario progetto. Quest’uomo magro, alto, vestito di nero, dallo sguardo gentile e tenace che vedo in mezzo alla gente, che applaude e che non chiede mai del passato a nessuno, come Ibrahim, perché “non gli interessa”.
Nonostante lo spettacolo sia finito, rimango ancora seduta. Ne rivedo i flash, per cercare di districare, sciogliendolo in pezzetti più piccoli, questo groppo nello stomaco che mi blocca. Trenta uomini vestiti di rosso e giallo che corrono con canne al vento che fendono l’aria, che corrono intorno a vasche d’acqua ,che corrono e sembrano sangue, che pulsa.
Un bimbo con i calzoni all’inglese, un pirata con l’astrolabio dagli occhi azzurri come il pezzo di cielo sopra quel cortile. Sfere bianche che si muovono sull’acqua, seguendo il vento che ha soffiato tutto il tempo dolcemente, come parte della scena, sfere che immagino mondi, quelli di ognuno di noi, in cui ci stiamo perdendo qui, ora, riscattati dalla bellezza di questo momento.
“Quest’attimo che non potrai mai trattenere” legge qualcuno. Uno strano essere che ride come un folle mentre un commesso viaggiatore, grigio e monocromo come il suo andare, ci attraversa.Un atlante in doppiopetto che sorride sardonico, un uomo con le mani in tasca, legato da un nastro rosso e fermato in quel suo gesto.
Personaggi colti nel momento in cui accade qualcosa e in cui, nello stesso tempo, stanno cercando ciò che ordinario non è e va oltre ogni schema.
Perché “Hybris”, la colpa di chi sfida leggi immutabili, la superbia, l’arroganza a cui è dedicato il progetto della Compagnia quest’anno è anche forza vitale, sfida, coraggio di andare verso ciò che non conosciamo. Voglia di essere esploratori della terra sconosciuta che è dentro di noi, oltre ogni confine.
L’immagine di Punzo che legge nel silenzio che: “Siamo tutti lettere di un libro magico e che questo libro è il mondo. Ed è l’unica cosa che abbiamo”, o che: “Non c’è sulla Terra essere umano capace di sapere chi sia. Nessuno che sappia cosa è venuto a fare, perché la Storia sia un immenso testo liturgico e il libro esiste, il mondo esiste, per giustificare questo libro”.
“Saremo occhi che mancano ai più, saremo passioni che non feriscono”. I tamburi tacciono da un po’, una chitarra classica si sente ora in sottofondo. Sulla scena in quel cortile i personaggi che ci fissano, ognuno con lo sguardo che non si perde mai in altro e ci riporta li, a quel momento.
Punzo tace, cammina lentamente nell’acqua stesa sulle tre grandi vasche. Va verso un altro uomo, anche lui vestito di nero, bello, che gli va incontro, sorridendo. Camminando anche lui, in quell’acqua. Vicini, ora si stringono, come se danzassero.
La musica sale, o forse no. In realtà non so neanche più se ci sia ancora, perché non sento altro che il mio cuore che batte a mille, mentre osservo il tutto che si scioglie in quell’incontro, in quell’abbraccio, mentre gli applausi si alzano al cielo.
Oltre quei muri, oltre il vento delicato che sentiamo addosso dall’inizio, che ha smosso mondi e pensieri , in questo momento senza tempo. Sì, il cuore batte a mille ed è l’unica cosa che avverto qui “chiuso”, mentre il resto, tutto intorno vola, altrove, certamente oltre questo cortile dell’ora d’aria e queste mura.
Tutti applaudono. Io continuo ad essere appoggiata a queste sbarre e seduta su questo cemento grigio, perché non riesco a muovermi. Pietrificata nella commozione.
Questa è la Compagnia della Fortezza, il suo modo di essere, che scava dentro, “che ci trasforma in racconti senza tempo”. Non si può spiegare in altro modo. Serve “esserci”.

E poi perdervisi, dentro.

di Milene Mucci

fonte: http://www.huffingtonpost.it/milene-mucci/un-grande-regista-la-sua-umanita-e-la-prima-compagnia-teatrale_a_23053511/

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