Alberto Giacomelli: “Per un giudice dare la vita per la giustizia è la morte migliore”.

Ha coltivato il sogno di servire il suo Paese e di diventare magistrato. La passione per la professione gli è stata trasmessa dal padre, anch’egli giudice. E’ immaginabile che quando ha scelto di diventarlo ci siano state motivazioni profonde e importanti. Il lavoro o meglio la scelta di vita da intraprendere per diventare magistrato è molto complicata ed esige di una forza di volontà non indifferente.
Essenzialmente un uomo d’ordine. E’ difficile che si possa fare il magistrato, così com’è difficile che si possa fare il poliziotto se non si crede nel binomio: legge e ordine. Non esiste attività umana più nobile che quella di cercare di rendere giustizia.

Scelse di fare il magistrato. Un magistrato che era l’esempio di chi sa assumersi le responsabilità e sa rischiare in proprio e non importa se tutto il resto sembra non esserci più. Un richiamo ideale e morale. Sì, un insegnamento morale molto forte.
Era un magistrato molto prudente che amava la vita tranquilla. Un giudice all’antica. Un magistrato cauto, dotato di grandi capacità di mediazione. A Trapani lo conoscevano tutti come lo zio Alberto, un modo affettuoso per chiamare un vecchio giudice che sapeva vivere in armonia con tutti.

Alle ore 8 del mattino del 14 settembre 1988, Alberto Giacomelli, magistrato, in pensione da quindici mesi, saluta la moglie ed esce di casa. La contrada Locogrande, nelle vicinanze di Trapani, è una campagna deserta e silenziosa. Percorre la strada sterrata a bordo della sua Fiat Panda bianca, poi svolta a sinistra per immettersi nella provinciale che conduce in città. L’auto fa appena in tempo a sbucare sulla provinciale che porta a Trapani. Gli assassini, probabilmente due, a bordo di una vespa rally 200 azzurra, lo attendono nascosti tra gli uliveti. Lo costringono a fermarsi e a scendere dall’auto. Si trova di fronte ai suoi assassini che probabilmente conosce. Gli concedono solo il tempo di rendersi conto che la vita stava davvero per abbandonare il suo corpo. E’ un attimo. Gli sparano tre colpi con una Colt modello Taurus calibro 38 di fabbricazione brasiliana: alla testa, al cuore e all’addome. È a terra, morto ammazzato. Muore così Alberto Giacomelli, magistrato, in un vile omicidio. Muore in mezzo ai tanti morti negli anni di fuoco della lotta tra Stato e Cosa Nostra. Muore un anziano magistrato in pensione. Muore a 69 anni.

Lui si sentiva in missione, mandato dallo Stato per applicare la giustizia. Ed è morto da servitore dello Stato. Era andato in pensione Alberto Giacomelli quindici mesi prima, dopo quarant’anni di carriera passata sempre nello stesso tribunale, a Trapani, una città difficile che non ha mai avuto simpatie per giudici o poliziotti troppo intraprendenti.

Quella mattina del 14 settembre 1988, una mattina come tante, arrivano i killer e uccidono questo ex magistrato in una strada di campagna. Un istante dopo scompaiono tra una distesa di vigne, non sono mai stati individuati con certezza. Il suo cadavere supino, immerso in una pozza di sangue, fu ritrovato dai carabinieri di Trapani dietro la sua autovettura alle ore 8.35. Hanno ammazzato un ex presidente di Corte d’Assise, un giudice che fino ad un anno prima presiedeva una sezione penale del tribunale di Trapani e quella per le misure di prevenzione. Decideva sull’invio al confino dei mafiosi, se potevano tornare a casa, se dovevano firmare ogni sera o ogni settimana il registro dei vigilati speciali. Lo hanno ucciso un anno dopo la fine della sua attività di giudice. Un agguato di mafia per un magistrato così prudente e dotato di grandi capacità di mediazione. Un uomo che aveva il suo credo, quello della giustizia. L’idea di voler dare giustizia al prossimo è bellissima, un pensiero che nutre e disseta chi lo matura. Un uomo con doti tecniche e con passione. Doti umane e doti tecniche in equilibrata presenza e spesso ci vuole coraggio, ecco che il coraggio può diventare necessario quando si toccano interessi “forti”. Un magistrato italiano assassinato dalla criminalità organizzata.

Un primo processo, celebrato davanti alla Corte d’Assise di Trapani, portò alla condanna momentanea di alcuni soggetti ritenuti gli esecutori dell’eccidio, una banda di giovani balordi. Furono poi assolti in grado d’appello. Negli anni successivi si giunse alla condanna all’ergastolo di Totò Riina, considerato mandante dell’omicidio, complici le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.

Nel 1985 Giacomelli aveva firmato il provvedimento di sequestro di beni a Gaetano Riina, fratello del boss. Fu così che la mafia aveva deciso di uccidere Giacomelli, perché, in qualità di Presidente della sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Trapani, confiscò l’abitazione e i relativi terreni del fratello del capo di Cosa Nostra, non consentendogli più di utilizzarla. Il giudice aveva compiuto il suo dovere. La mafia aveva deciso di colpire. La vendetta fu consumata. Un’altra toga venne macchiata di sangue in territorio di mafia. Un magistrato il cui nome lo si legge solo nella lunga lista dei giudici ammazzati dalla mafia.

Alberto Giacomelli, trapanese di nascita, trascorse più di quarant’anni della sua vita ad amministrare la Giustizia dove era nato e aveva trascorso la sua giovinezza. Non si era quasi mai occupato delle vicende di mafia, non era un acerrimo nemico delle cosche, non aveva sfidato a volto aperto Cosa Nostra. Un uomo che non si aspettava di morire. Un servitore dello Stato che, quando il destino lo aveva messo di fronte ad una prova di coraggio, non si era tirato indietro. Non aveva badato ai nomi. Non aveva avuto paura dei nomi, specie di quelli dei potenti. Aveva compiuto il suo dovere e per questo fu ammazzato. Aveva sessantanove anni quando venne freddato dal piombo di Cosa Nostra.
Nel 1987 decise di appendere la toga al chiodo e andarsene in pensione. Ciononostante, il 14 settembre del 1988, quindici mesi dopo il pensionamento, il suo corpo fu ritrovato sulla strada provinciale che conduce a Trapani, accanto alla sua Fiat Panda.

Quel magistrato quieto e tranquillo, quel giudice moderato e innocuo nel 1985 compì un gesto coraggioso: pose la firma per far sequestrare la casa di Mazara del Vallo intestata ad un certo Gaetano che di cognome faceva Riina e che era il fratello del capomafia corleonese Salvatore Riina. Una firma che lo condannò a morte, perché il boss non perdonava nulla, tanto meno un torto alla sua famiglia. È stato ucciso, perché è stato tra i primi che ha applicato come magistrato la legge “Rognoni-La Torre” che consentiva ai magistrati la confisca dei beni frutto di denaro illecito.

Una pagina buia della vita di Trapani. Ancora una volta la magistratura siciliana si tinge di rosso.

Nelle cronache di mafia Alberto Giacomelli è abbastanza sconosciuto nell’Italia di oggi. Troppo silenzio. Quasi non si ricorda il suo sacrificio. La sua figura rischia di essere dimenticata. Il suo non può restare un nome affisso al bordo di una strada, una storia caduta nell’oblio, ma deve diventare testimonianza dell’aspetto brutale e vendicativo della mafia. La necessità del ricordo è un dovere, un obbligo morale.

Quello di Alberto Giacomelli resta l’unico caso di omicidio di un Magistrato in pensione nella storia d’Italia.

Lo ricordiamo con le sue parole. Diceva sempre che “per un giudice dare la vita per la giustizia è la morte migliore”.

di Maria De Laurentiis

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