L’altro referendum, il Kurdistan ha scelto

“Andremo avanti, quale che sia il prezzo da pagare. Senza cedere a pressioni o minacce. Perché il popolo curdo deve esprimere la sua volontà senza problemi e allo stesso tempo deve mantenere la sua sicurezza”. In questi termini ha parlato Masoud Barzani, presidente del governo regionale dell’Iraq del Nord, sul referendum per l’indipendenza del Kurdistan.

Una regione a nord della Mesopotamia, divisa tra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Armenia, in cui vivono oltre 50 milioni di curdi. Il 25 settembre, nelle provincie irachene di Erbil, Sulaimaniyah e Dohuk, oltre 5,6 milioni di elettori sono stati chiamati alle urne per esprimersi sulla libertà di quest’area.

Nei 12.072 seggi sparsi nel nord del paese hanno votato oltre il 78% degli aventi diritto, ovvero quasi 3 milioni e mezzo di persone. In una consultazione che non avrà nessun valore legale, ma che serve a far sentire la propria voce. Un atto simbolico di un popolo vittima di violenze senza tempo. I curdi in Iraq rappresentano quasi 1/5 della popolazione totale e sono stati protagonisti di deportazioni, bombardamenti e repressioni. Negli anni sessanta oltre 8.000 curdi furono arrestati, uccisi o fatti sparire dalle autorità irachene. Come i desaparecidos argentini, nella storia di Santiago Maldonado che raccontiamo in questo numero. Nel 1988 in due giorni furono massacrati 5.000 curdi con l’utilizzo di armi chimiche.

Adesso chiedono di essere riconosciuti con un referendum che non è stato però riconosciuto dal potere centrale. “Il voto curdo è una decisione unilaterale che va contro la Costituzione e la pace sociale – spiega Haide al-Arabi, primo ministro iracheno – prenderemo le misure necessarie per conservare l’unità del paese”.

Queste misure, per adesso, sono soprattutto tre: l’esercito schierato nella provincia contesa di Kirkuk, le compagnie industriali pubbliche obbligate a sospendere le loro attività nelle zone interessate al voto e il blocco degli stipendi a tutti i dipendenti statali che si sono recati alle urne.

E mentre iniziavano a circolare i primi exit poll, che davano il Sì all’indipendenza ad oltre il 90%, sono iniziate le grandi manovre degli stati vicini. L’Iran ha spostato l’esercito verso in confine curdo, la Turchia ha minacciato, tramite le parole di Erdogan, azioni pesanti: “Siamo sconcertati. Il referendum è contro il buonsenso e mette in pericolo la pace e la stabilità di tutta la regione”.

di Lamberto Rinaldi

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