Nati in un altro posto

Il nostro è un Paese di migranti. Dall’unità d’Italia, da quando esistiamo come Stato, milioni di noi si sono spostati alla ricerca di qualcosa, all’interno o fuori dai confini nazionali.

Anch’io sono figlio di migranti. I miei non hanno rischiato di morire attraversando un deserto o il mare, per loro è stato sufficiente prendere una corriera. In qualche ora hanno attraversato gli Appennini e, dalle montagne d’Abruzzo, sono scesi alle porte di Roma.

Non c’erano frontiere da varcare o documenti da richiedere e perciò, d’estate, riattraversavamo i valichi, stavolta in utilitaria, per passare le vacanze nel loro paese, sui monti della Laga. Noi bambini eravamo, per chi era rimasto, i “romani”. Altri figli di emigranti, che come noi tornavano in estate, erano i “milanesi” e poi c’erano i “bolognesi” e addirittura i “francesi” e i “tedeschi”. Ed era vero. Noi eravamo romani, eravamo milanesi e francesi e tedeschi. Amavamo quel borgo e i suoi boschi, ci piaceva tornarci, ma non era quella la nostra casa.

Eravamo nati e andavamo a scuola in un altro posto. Il nostro.

Sarà per questo che mi riesce facile capire che se un bambino nasce o cresce e va a scuola in Italia, anche se i suoi genitori hanno attraversato il mare, è semplicemente un bambino italiano.

Di più, sono bambini romani, milanesi o siciliani. Magari amano il paese d’origine dei loro genitori, anche se loro non l’hanno mai visto, ma da quello che pensano e che dicono, dall’accento con cui lo dicono, è chiaro che la loro casa è qui.

Per i nostri figli, i loro compagni di classe, quei bambini possono essere romanisti o laziali, o addirittura juventini, ma certo sono italiani come loro.

Sono gli adulti, alcuni solo per ignoranza altri per convenienza, che si ostinano a non riconoscere quanto è ormai evidente: esistono italiani di tanti colori.

Cercare di osteggiare quella che è ormai una realtà non porterà niente di buono né a quei bambini, che crescendo sentiranno il peso della loro situazione, né al Paese, che potrebbe essere migliore se, chi vive nei suoi confini, si sentisse pienamente a casa.

C’è da anni, in attesa di approvazione, una proposta di riforma della cittadinanza che prevede uno ius soli molto temperato che non farà mai diventare, come qualcuno minaccia, l’Italia un gigantesco reparto maternità.

La riforma prevede che almeno uno dei due genitori si trovi legalmente in Italia da più di cinque anni, disponga di un reddito minimo, di un alloggio idoneo e conosca la lingua italiana. Nessuna corsa al parto quindi, nessun barcone per i travagli. Con lo ius culturae, poi, la cittadinanza italiana potrebbe essere richiesta solo da minori che abbiano frequentato le scuole italiane e superato almeno un ciclo scolastico.

Nessuna rivoluzione, ma il minimo che uno Stato democratico deve ai suoi giovani. La riforma è un puro atto di civiltà e opporsi è stupido e crudele. Due caratteristiche non estranee al razzismo.

di Enrico Ceci

 

Print Friendly, PDF & Email