Il lavoro nobilita l’uomo

Bravo era bravo, il professor Arati. Insegnava francese alle scuole medie. Giacca spinata e occhiali da vista cerchiati di metallo, un uomo più sobrio che elegante, un filo monotono: uno di quei personaggi creati per svanire presto dalla memoria degli studenti. Gentile, discreto, metodico. Alle lezioni di grammatica francese aggiungeva volentieri qualche lezione morale. Una delle massime che ripeteva più spesso era: “Il lavoro nobilita l’uomo”. Era quella la sua citazione preferita, che con l’apprendimento della lingua straniera non c’entrava proprio niente. C’entrava però con la vita, quella da vivere dopo, da grandi, una volta usciti dalla scuola. “Il lavoro nobilita l’uomo” lo diceva sempre in italiano, mai in francese, come se quel messaggio dovesse entrare in testa proprio a tutti, anche a quelli meno studiati, anche a quelli che per le sue lezioni non avevano interesse, o attitudine. Tra poesie di Prévert, coniugazioni, letture, accenti acuti e gravi, forme interrogative, regole ed eccezioni, anche “il lavoro nobilita l’uomo”, arrivava ai nostri orecchi, lezione dopo lezione. Alla fine gli abbiamo creduto, al professore. Ci siamo convinti che anche noi, figli della piccola borghesia, eredi del mondo operaio o contadino, pur non essendo di sangue blu per linea dinastica, saremmo diventati aristocratici semplicemente lavorando. Era, la sua, un’onesta promessa di riscatto. Non si trattava di scalare le gerarchie araldiche, beninteso. Il mondo del lavoro sarebbe stato l’ascensore diretto al pianerottolo più alto della scala morale, all’attico della nobiltà interiore.

Quanto il professor Arati fosse bravo come insegnante di francese l’abbiamo scoperto dopo, viaggiando. Lavorando -invece- abbiamo dovuto constatare quanto la sua promessa di nobiltà fosse anacronistica. Non a tutti è toccato quel premio che ci si aspettava in cambio di un’onesta fatica, ecco.

Dati ISTAT alla mano, il tasso di disoccupazione in Italia non cala, cala però il numero degli occupati a tempo indeterminato. Per chi ancora lavora i confini dei diritti si sono ristretti; nascono forme sempre nuove di precariato, aumentano i lavoratori sottopagati, quelli pagati coi voucher, quelli con i contratti irregolari, quelli che lavorano in nero. Di lavoro ce n’è poco e quel poco che è rimasto è diventato una merce di scambio, che vale ogni giorno di meno. Un ricatto, non un riscatto.

Il lavoro fa male

Sonja lavora al nastro. Che vuol dire che sta in piedi anche 16 ore consecutive davanti a un piano scorrevole su cui viaggiano ininterrottamente migliaia di castagne: tasta le castagne, toglie quelle rovinate e le buone le lascia passare.

Sonja lavorava le sue otto ore regolamentari in un ufficio commerciale prima che la macchina del lavoro inchiodasse senza troppo preavviso: gli ordini in calo, la riduzione d’orario, i tagli al personale e poi la chiusura. Coi figli da mantenere e una casa da scaldare. Ecco perché Sonja s’è trovata a elemosinare un lavoro stagionale, a stringere castagne al freddo, con due giacche addosso, che le porte dello stabilimento son sempre aperte sulle basse temperature dell’autunno in appennino.

6 euro e 50 l’ora, sabati domeniche e festivi compresi: la pagano così.

Sonja non può parlare con chi le sta accanto (parlare distrae) né ascoltare musica (anche la musica, le hanno detto, distrae). Non può andare in bagno se non nelle pause consentite, che sono poche e brevi: dieci minuti per la colazione, mezz’ora per il pranzo. Si sveglia alle 3 del mattino per prendere un antidolorifico, perché aprire e chiudere le mani, stringere per ore e ore nel pugno le castagne, fa male anche di notte. Lavora per dar da mangiare, mangia per poter lavorare. Si lamenta, ma sottovoce: ha ormai la disperazione rassegnata dei lavoratori che i diritti non li rivendicano nemmeno più. E’ ormai la fame a dettare l’etica del lavoro, a togliergli diritti e qualità. Tra miseria e nobiltà, è rimasta la miseria.

di Daniela Baroncini

 

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