Il lotto 285 (capitolo secondo)

“Solo sognando e restando fedeli ai sogni riusciremo ad essere migliori, e se noi saremo migliori, sarà migliore il mondo.”

Luis Sepùlveda

Ricordai solo allora che il sogno era stato netto e circostanziato, quasi la mia mente volesse che registrassi ogni particolare di esso, non sapevo per quale ragione, ma mi venne il sospetto che tra quelle immagini così nitide si nascondesse qualche segno che mi rimandava a un’altra vita, lontana nella mia memoria, che riguardasse una persona che avevo incontrato in passato e che era svanita e che il sogno me la volesse far riapparire come una presenza ineliminabile, una figura femminile forse, di cui distinguevo le sembianze, una donna conosciuta tanto tempo prima e che avessi amato perdutamente. Il lotto 285, di cui avevo non so come avuto indicazione da un semplice biglietto, ora si stagliava nella mia memoria in tutti i suoi particolari, quasi come attraverso fotogrammi riprodotti in sequenza che man mano avvicinavano l’occhio a un ingresso, custodito da un vecchio portiere che se ne stava seduto dietro un bancone, dietro il quale si trovava una congerie di cianfrusaglie accatastate l’una sull’altra, il cui contenuto facevo fatica a distinguere, ma che sembrava facesse parte dell’arredamento di quel luogo, dall’aria antica e dimessa. Il custode, o meglio il guardiano, aveva tra le mani quello che appariva essere un quaderno o un registro sul quale venissero annotati i nomi dei possibili visitatori, o forse contenesse le pagine di un diario sul quale il vecchio andasse annotando chissà quali considerazioni. Il sospetto mi venne nel constatare che lui mi guardasse (o si guardasse intorno) con una certa circospezione, quasi temesse che la mia presenza costituisse un pericolo, o quantomeno una curiosità da tenere sotto osservazione. Ma, avvicinandomi vieppiù al bancone, constatai con mia sorpresa che quel cumulo di oggetti, irriconoscibili a prima vista, che vi era nascosto (pensai) dietro, non era altro che un fastello di armi, tra le quali spiccavano mitra, fucili, pistole e bombe a mano, certo di fabbricazione non italiana. E, rivolgendomi poi verso la persona che in qualche modo le custodiva, notai che indossava una divisa militare, con tanto di mostrine che ne palesavano la sua appartenenza ad un corpo ben identificabile e di un grado elevato, un colonnello, forse, facente parte del regio esercito che, dopo gli avvenimenti dei primi di settembre di quell’anno, sembrava sbandato, o in attesa di nuovi ordini da un comando che ancora stentava a rivelarsi. Nel vedere quindi quell’ammasso di armi incustodite (a meno che quel luogo dove mi trovavo non fosse il deposito di una caserma che al momento non riuscivo ad identificare) mi avvicinai al militare e gli chiesi perentoriamente di consegnarmi quelle armi, assicurandolo che sarebbero servite, a me ai miei compagni, per opporre la prima resistenza alle truppe nemiche che si stavano nel frattempo posizionando nelle zone di accesso alla capitale. Non feci cenno sul mio grado militare, dato che in quel momento per un semplice civile volenteroso che voleva sostanzialmente rendersi utile per contrastare quell’invasione che, a detta dei più, si sarebbe ben presto trasformata in un’occupazione vera e propria, non sarebbe stato opportuno rivelare la mia reale identità. Non so se nel sogno o nella realtà, comunque sentivo vicina la presenza di quella donna intrepida che si rivelò in quel momento dietro le mie spalle e mi aiutò, non senza sforzo, a issare su un camion quel carico di munizioni ed armi che andavo in un certo senso sequestrando, senza che il militare che le custodiva opponesse resistenza, ed, anzi, sembrasse consentire il nostro presunto furto. Con quel carico, che si rivelò poi assai utile nel prosieguo della nostra azione di guerriglia, ci dirigemmo verso il centro della città, in un luogo che conoscevamo perché adiacente alle nostre stesse abitazioni e che pertanto ritenevamo sicuro per poter accogliere quell’arsenale così composito, del quale non avremmo saputo, quali semplici civili combattenti, utilizzarne al momento che una minima parte. In particolare le bombe, che ritenevamo ci sarebbero servite nelle occasioni che ci si fossero presentate, soprattutto in prossimità di passaggi di autocarri nemici, in luoghi che avevamo individuato in precedenza, specie al di sotto di muraglioni, o cavalcavia, dalla sommità dei quali fosse più facile lanciare gli ordigni senza essere individuati. Facevamo, io e la mia provvisoria e generosa compagna, parte di un nucleo di resistenti che si era formato spontaneamente sotto il comando di un civile che si era reso disponibile, in quanto insospettabile professore di liceo in una scuola adiacente al luogo dove avevamo programmato il primo attacco, a dirigerlo, ne ero certo, con un’autorità che gli era dovuta per il suo passato di perseguitato politico negli anni dell’oppressione fascista, e che ritenevamo idoneo a gestire le nostre poco organizzate operazioni. Ricordo che nulla ci spingeva a tali azioni se non l’odio e la repulsione che provavamo nei riguardi di quell’invasione militare della quale eravamo vittime inconsapevoli, ma decise ad opporre quel minimo di resistenza che sentivamo legittima quali patrioti e seguaci degli ideali insopprimibili di libertà a giustizia. Come in tutte le rivoluzioni, i primi che imbracciano il fucile sono gli oppressi e, mi ricordai nel frattempo, che il primo dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione. Ma quale rivoluzione? Qualcuno mi aveva insegnato, negli anni della mia formazione politica, ad aderire agli ideali della rivoluzione bolscevica ma adesso, in quel preciso frangente in cui non eravamo altro che giovani volenterosi, non ancora appartenenti ad alcuna organizzazione facente riferimento ad un partito che nel frattempo agiva in clandestinità in opposizione al passato regime, quale rivoluzione, quale presenza efficace potevamo inventarci per poter, se non sconfiggere, perlomeno fermare, quell’occupazione che andava estendendosi in quasi tutte le parti della nostra penisola? E soprattutto nella capitale, sottoposta da mesi ai continui bombardamenti alleati e che, al momento non palesava alcun tentativo di resistenza, se non le insufficienti sortite, alle porte della città, di militari e volenterosi poco organizzati che cadevano numerosi sotto i colpi dell’artiglieria nemica? Quale rivoluzione, se non una consapevolezza di essere una minoranza agguerrita che tentava di organizzarsi, di formarsi in nuclei clandestini che riuscissero ad agire indisturbati, aggredendo proditoriamente il nemico e nascondendosi subito dopo, in dimore sicure, e consapevoli che la prossima azione ci potesse essere fatale? Questi pensieri ci vorticavano nella mente, mentre, stupefatti della subitanea presenza dei carri armati nemici nel centro della città, ci dirigevamo, io e la mia compagna, verso gli alloggiamenti dove, nel frattempo, avevamo custodito le armi.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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