Il lotto 285 (capitolo terzo)

”Ma intanto il sogno mi aveva condotto a un’altro luogo, quello sì più aderente a quello che avevo visto fra le nebbie cimmerie, e non corrispondeva affatto a quello che avevo trovato nella realtà.”

 Il cielo sopra la città minacciava pioggia. Le famose ottobrate romane, che si caratterizzavano un tempo per la loro mitezza, in quest’anno di guerra si rivelavano cupe, ventose, quasi volessero annunciare un inverno prossimo più rigido dei precedenti, fatto di abbondanti acquazzoni e temperature al limite del sopportabile per gli abitanti di quella città, abituati da sempre ad un clima soleggiato, ed a sedersi quindi sull’uscio, appena sfiorati da una lieve brezza marina.

A questo punto, dopo aver dichiarato nei precedenti capitoli l’appartenenza dell’incipit del mio raccontare a una suggestione onirica, mi sia consentito fare una digressione che forse stupirà, o quantomeno, incuriosirà i lettori. Nel mio scartabellare alla ricerca di una citazione da mettere sulla testata di questo terzo capitolo, mi sono imbattuto in quella che si legge qui sopra, che forse avevo trascritto involontariamente, e di cui, altrettanto involontariamente non avevo segnalato l’autore. Questo messaggio criptico mi aveva in un certo senso affascinato ed avrei certo continuato il mio racconto come si procede nelle storie fantastiche o nelle fiabe, facendo in modo che non sia distinguibile il rapporto tra sogno e realtà, ma come potevo giustificare quell’ultima (o forse la prima) azione che avevo effettuato, cioè quella di impossessarmi delle armi? E come avrei dovuto interpretare come sogno l’apparire improvviso di quella che sarebbe stata poi individuata come mia compagna di lotta e di vita? Ritornai quindi al tema che mi aveva spinto a progettare il racconto, cioè quello della ricerca di quel luogo che avevo contraddistinto con la definizione di “Il lotto 285″. In un primo momento mi sembrava di averlo individuato in quella casa diroccata ma poi un altro sogno mi aveva portato a quell’altro luogo dove avevo trovato le armi. Quale dei due era reale? Al momento non potevo stabilirlo. Ma come quei cavalieri alla ricerca del Graal, pensai che fosse più utile passare all’azione, piuttosto che sperdermi tra improbabili terreni di caccia. Mi atterrò quindi in questo terzo capitolo alla più cruda realtà dei fatti come li ho subiti e vissuti.

La prima questione che mi posi in questo frangente fu quella di dover pensare a come, e con chi, organizzarmi per mettere a frutto quel mio gesto istintivo di impossessarmi delle armi e, soprattutto, di cosa farne. Mi consultai quindi con alcuni dirigenti del mio partito che a quell’epoca ancora agiva in clandestinità e decidemmo, con l’aiuto prezioso della mia compagna, di formare dei nuclei di combattenti armati, di pochi elementi ciascuno, che cominciassero ad agire in vari punti della città, ed in special modo nel centro e nelle zone limitrofe. Le fontane, che nella nostra bella città ornavano le piazze e gli angoli delle strade, furono il primo teatro delle nostre riunioni cospiratorie, forse perchè (pensavamo) con la loro austerità ci consentivano una maggiore privatezza, e, nel contempo, essendo prevalentemente in luoghi aperti, ci assicuravano una via di fuga più agevole in caso di attacchi nemici. Ma nel frattempo, nonostante i nostri primi sforzi di concretizzare la nostra azione cominciassero a dare dei frutti, avvennero del fatti che non potemmo impedire, neanche fossimo stati il vero esercito regio, il quale, in quei momenti, dopo la fuga del re, stentava ad organizzarsi ed, anzi, diveniva bersaglio da parte delle truppe nemiche di rastrellamenti e di deportazioni, soprattutto nei loro corpi più esposti, come quelli dei carabinieri e delle guardie di finanza.

Questi fatti dolorosi spinsero me e i miei compagni ad intensificare la lotta, ma a metà ottobre, già preannunciati da ricatti e intimidazioni da parte della polizia tedesca nei riguardi della comunita’ ebraica, ci furono feroci e proditorii rastrellamenti, nel Ghetto e in altre parti della città, di cittadini segnalati come appartenenti a famiglie israelitiche che si conclusero con la deportazione di molti di essi nei famigerati campi di sterminio nazisti disseminati nell’Europa nord-orientale. Come si sarebbe potuto prevenire e ostacolare quella repressione così violenta? Poteva la Chiesa, nella figura del suo pontefice, fermare quella, e poi le altre persecuzioni che la seguirono? Nel dubbio molti cittadini romani, si videro costretti a contare solo sulle proprie forze, e decisero di ospitare e di nascondere quei pochi individui che sfuggivano miracolosamente alle retate, considerandoli, al di là di ogni pietà cristiana, alla loro stessa stregua, cioè cittadini indifesi sotto il tallone straniero. Questi atti di solidarietà coinvolsero anche persone a me vicine ed io stesso, fuggendo, ebbi la fortuna di rifugiarmi presso lo studio di miei amici pittori nel centro della città. Da lì potei industriarmi a programmare i successivi attacchi alle forze di occupazione.

(continua)

di Maurizio Chiararia

 

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