Lotto 285 (capitolo quarto)

“Ma non è poi lo stesso – che sia stato un sogno oppure no – se questo sogno mi ha rivelato la verità?”

Fiodor Dostoevskij

   La giovane donna che accompagnavo tutte le sere alla sua casa in periferia era poco più che un’adolescente ma era forte e decisa come un’adulta, tanto da farmi decidere di affidarle dei compiti che non avrei pensato di affidare ad altre persone più grandi ed esperte di lei. Era piccola di statura ma aveva gambe solide e ben tornite che si intravedevano fra l’orlo della gonna appena sotto il ginocchio e i calzettoni e scarponi da montagna dalle spesse suole che la facevano apparire più alta. La sua pelle aveva un colorito bianco-ambrato, quasi rosato, che indicava la sua origine meridionale, anche se lei era cresciuta in una cittadina di una regione quasi vicina al Nord Europa. Il suo viso rotondo, dal colorito scuro, spesso si apriva in un sorriso, anche se a volte assumeva un’aria seria e quasi imbronciata. I suoi seni, che si notavano attraverso la leggera camicetta, erano rigogliosi e fermi come il marmo delle statue antiche. L’incedere era sicuro, dalle ampie falcate, quasi militaresco, cosa che forse le derivava da lunghe passeggiate in montagna. Io ero poco più alto di lei ma, magro e allampanato com’ero e, per di più dai lunghi capelli, sembravo un gigante coi trampoli in confronto a lei.

   Attraversavamo la città prendendo strade secondarie per evitare i camion nemici, sul far della sera. Le strade erano semideserte nell’imminenza del coprifuoco. Ci tenevamo per mano, forse per scacciare la paura che, anche se eravamo già abituati ad atti cospirativi, ci attanagliava di tanto in tanto, specie dopo aver compiuto azioni che potevano costituire un serio pericolo per noi e per i nostri compagni di lotta. Ci eravamo conosciuti durante un concerto qualche mese prima, quando ancora non si erano verificati quei fatti che ci avrebbero portati alla lotta armata, ignari ancora di quello che sarebbe potuto succedere all’approssimarsi dell’autunno di quell’anno. Erano concerti che si svolgevano per lo più in piazza, la mattina, ad opera di bande cittadine che si prestavano ad intrattenere gli astanti con musiche tratte da opere conosciute ed amate dai più. Arie di Verdi, Mascagni, Bellini, Giordano, che a quell’epoca ancora rappresentavano il genio italico. Ci eravamo stati presentati da alcuni amici comuni, che poi si rivelarono divertiti complici di quell’incontro. Lei, in piedi accanto a me, sembrava completamente assorbita da quella musica, e con il suo comportamento eretto ed attento, non palesava alcun intereresse per il giovane che gli stava accanto, quale io ero. La guardavo di sottecchi, cercando di carpire qualche segno da parte sua, ma lei sembrava così assorta in quell’ascolto che non avevo la forza di farmi notare più del necessario. D’un tratto lei però si volse verso me e, con un sorriso aperto e seducente, mi rivolse la parola con frasi di circostanza, certo, ma che a me apparivano come un primo segnale di un’intesa che sarebbe andata oltre quel primo, imprevisto, contatto. La terrazza sulla quale ci trovavano, posta al termine di un’ampia distesa di verde che costituiva il parco più grande della capitale, si affacciava su di una piazza maestosa, al cui centro si ergeva un obelisco di fattura egizia, contornato da fontane ed altre istoriazioni antiche. Poco distante da quel luogo, da un cavalcavia che collegava le due parti del parco, pochi mesi dopo avremmo compiuto una delle nostre prime azioni, lanciando bombe a serramanico di fattura tedesca sopra camion nemici che nel frattempo passavano per la strada sottostante.

   Quei nostri primi sguardi durante il concerto costituirono quindi il nostro primo intimo suggello di un’intesa che sarebbe durata oltre quei faticosi mesi di guerriglia che ci aspettavano. Nelle nostre azioni c’era qualcosa di forte che ci legava, non solo l’odio verso il nemico occupante, non solo l’estrema incoscienza del pericolo che quelle azioni comportava, ma anche l’amore verso un ideale di comunanza universale, costituito a quell’epoca nella fede in un riscatto dei popoli dallo sfruttamento e l’oppressione. Faro di quest’ideale era la rivoluzione bolscevica, e qual’altra poteva essere per noi , nati e vissuti in un’Europa disfatta da una guerra mondiale, preda di regimi autoritari che non rispettavano le minoranze, ma anzi le perseguitavano e le annientavano? Chi conosceva allora la sorte che toccava ai profughi dalle regioni dell’Est, costretti a insediarsi in ghetti di città a loro sconosciute, e quale sorte sarebbe toccata poi a quegli abitanti confinati in luoghi malsani, privi di viveri e dei più elementari mezzi di sostentamento, in grado solo di mantenere una propria identità di popolo perseguitato da millenni? Anche noi, cresciuti negli agi, non sapevamo chi fossero i componenti di quelle famiglie nei ghetti, forse anche noi appartenevamo a quella comunità, o forse anche noi saremmo stati complici di quell’annientamento, ma perlomeno ci riscattava l’orgoglio di appartenere ad un gruppo ristretto di persone che aveva preso le armi contro quei persecutori, e li combatteva.

   Nella mia formazione politica, che avvenne nell’ultima fase del fascismo ad opera di un vecchio antifascista che avevo conosciuto al lavoro, c’era anche l’insegnamento che ci veniva dalla nascita della Repubblica Romana di un secolo prima e della sua Costituzione, ma anche quello delle imprese degli Arditi del Popolo che si erano costituiti subito dopo la prima guerra mondiale a contrasto dei fascismi incipienti. Un episodio in particolare mi fu di monito per gli anni futuri: quello della cacciata dei fascisti nel ’19 al loro ingresso nella capitale a bordo di un treno che per fortuna venne fermato dagli Arditi, i quali poi vennero fatti segno a colpi di fucile per i quali morì un ferroviere, padre di famiglia, una delle prime vittime di quel regime autoritario che si sarebbe a breve insediato nella nostra penisola con il beneplacito del re e dei padroni.

   Nelle nostre peregrinazioni per raggiungere l’abitazione della giovane donna era difficile che ci scambiassimo qualche parola. Ma la prima volta che la avevo accompagnata le avevo chiesto, con una certa trepidazione, dato che quei luoghi sperduti verso i quali ci dirigevamo mi erano quasi del tutto ignoti, dove abitasse precisamente ed ella mi aveva risposto, dopo una lieve esitazione che nascondeva una certa vergogna: “Ai lotti.”

   A quelle parole subito mi era venuto in mente il sogno che avevo fatto e, tradendo una certa ansietà, ed anche se non conoscevo la reale conformazione della borgata nella quale ci stavamo addentrando, le avevo chiesto quale fosse il numero del lotto. Ella, certamente sorpresa da quella mia richiesta di precisazione, mi aveva risposto: “Il 15, l’ultimo in fondo alla valle.”. Potete immaginare quale fosse stata la mia delusione nell’udire quel numero, ma mi ero subito ripreso e, senza dare a vedere i pensieri nei quali nel frattempo mi ero assorto, avevo controbattuto dicendo: “Per me è un numero come un altro. Ma andiamo, fammi vedere questo famoso “Lotto 15”.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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