Nell’ora più buia la luce della parola

La battuta finale del film è quella che riassume tutta la vicenda in maniera prodigiosamente folgorante. Intanto, però, che Winston Churchill ci restituisce questo film di Joe Wright, candidato a una serie di Oscar 2018, tra cui Miglior Film e Migliore Attore Protagonista? Ecco, è il Churchill interpretato da Gary Oldman, che fa colazione al letto con il grande sigaro subito acceso, si alza, indossa la vestaglia e detta un nervoso telegramma a una giovane dattilografa intimidita, sclerando contro di lei per qualche tasto battuto male. È un leader che indossa la sua aura, la sua distanza storica in inquadrature di luce e ombra o dietro spesse nuvole di fumo dei suoi inseparabili Romeo y Julieta (che presero poi direttamente il nome di Wiston Churchill), che aveva imparato a fumare a Cuba, quando a 21 anni era già reporter nella guerra tra l’isola caraibica e la Spagna. La indossa la sua aurea e poi subito se ne rispoglia, per infilarsi sotto la doccia o direttamente nel cesso con telefono dentro il gabinetto di crisi sotto un bunker a prova di bomba. Ma perché questo statista colto nei suoi aspetti di grande fumatore, bevitore, mangiatore, irascibile, stridulo, schietto fino all’improntitudine anche nei confronti della Corona? Perché il film vuole dimostrare che nell’ora più buia è l’intera nazione che si cala dentro il suo abito a tre pezzi in flanella gessato, sotto la sua classica bombetta e dentro i suoi enormi bicchieri di whisky con ghiaccio.

In uno scambio colloquiale disteso, serale con la sua dattilografa all’improvviso lui sente che lei in quel momento è tutta l’Inghilterra fatta persona. Il suo fidanzato – come migliaia di altri ragazzi – è intrappolato dentro quella micidiale guerra, stretto sulla spiaggia francese di Dunkerque, tra l’avanzata dei carrarmati nazisti dall’entroterra e il bombardamento aereo dei Messerschimitt o degli Stuka sul mare., Sente che deve rivolgersi a lei, prima che ai generali, ai consiglieri, ai diplomatici, ai ministri, a Sua Maestà il Re. La fa entrare nelle stanze del gabinetto di guerra dove le era severamente proibito l’accesso. La mette davanti alle carte di guerra per mostrarle la situazione bellica in tutta la sua disperante realtà. A fronte di questa soverchiante drammaticità tutti vogliono piegarlo al realismo politico di un compromesso capestro con Hitler e Mussolini. Una parte della famiglia reale vuole questo, e ha i suoi influenti plenipotenziari dentro il governo, il Parlamento e il ristretto consiglio di guerra. Tra essi l’ex premier Neville Chamberlain e il Lord Halifax. Winston, però, dalla sua dattilografa riceve la forza e la convinzione di inoltrarsi ancora più in giù nel corpo della nazione. Scende nel suo sottosuolo, ossia nella Metropolitana di Londra, dove prima non aveva mai messo piede. Sebbene per il breve tragitto di una sola fermata, fino a Westminster, Churchill dentro quei vagoni entra in sintonia sotterranea, viscerale con la sua Inghilterra. Ricevuto l’appoggio del Re Giorgio VI, Winston riunisce il Consiglio dei Ministri allargato, per rivolgersi successivamente al Parlamento in seduta plenaria.

La segretaria gli aveva detto che nessuno meglio di lui avrebbe saputo trovare le parole giuste per quel discorso cruciale, perché lui era un vero mago delle parole. E le sue parole sono direttamente luce e azione: travolgenti e senza alcun tremore. In effetti fu uno dei più memorabili discorsi storici di uno statista. “Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste di atterraggio, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai, perché senza vittoria non può esserci sopravvivenza!”.

Così a chi gli domandò che cosa stesse succedendo dopo quel discorso, un travolto Lord Halifax non poté che rispondere: “Ha mobilitato la lingua inglese e l’ha mandata in guerra”.

di Riccardo Tavani

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