L’oro degli intestini: lo sfruttamento degli orsi tibetani dalla Cina al Vietnam

Il primo a chiamarli “orsi tibetani” fu George Cuvier, fondatore del Museo di Storia Naturale di Parigi, nel 1823. In tempi più moderni sono stati ribattezzati  “orsi della luna”: la notte però, in alcune parti del mondo, questi animali guardano il cielo solo da una gabbia.

Prodigiosa e preziosa sembra essere la bile di queste creature: viene utilizzata per fare medicinali, vini, shampoo e diverse bevande. L’acido ursodeoxicolico contenuto al suo interno è in grado di alleviare dall’epilessia al mal di gola. Peccato che le tecniche di estrazione sono tanto crudeli da aver reso illegale questa pratica in gran parte del mondo, eccetto per la Cina. E’ vietata ma sfidano la legge anche in Corea e Vietnam.

Una corretta estrazione prevede l’inserimento di un catetere permanente nell’intestino degli orsi, condizione che procura lancinanti dolori e un continuo fastidio all’animale. Il sondino funge da rubinetto per gli sfruttatori di queste povere bestie, che finiscono per avere la cistifellea del tutto disidrata. La continua sofferenza, vissuta all’interno di gabbie grandi abbastanza da ospitarli, porta gli orsi a sbattere continuamente la testa sulle sbarre, per alcuni fino alla morte. I più irascibili arrivano a strapparsi gli intestini: in questo caso si procede all’amputazione degli artigli e denti o direttamente delle zampe. Se non si suicidano prima, gli orsi vivono tra i 20 e i 25 anni in queste condizioni.

Si stima che ci siano 20 mila esemplari segregati nelle “fattorie della bile”: la pratica ha avuto inizio negli anni Settanta, ma è stata ‘scoperta’ nel 1993 quando Jill Robinson, animalista inglese, scovò queste macchine dello sfruttamento in Cina. Nel 1995 la Robinson fondò la Animals Asia Foundation (AAF), una delle ong ancora oggi tra le più attive nel salvataggio e preservazione di questa specie.

Negli ultimi trent’anni, grazie al lavoro di queste organizzazioni, si è dimezzato il numero degli orsi rinchiusi nelle fabbriche. Tuttavia il salvataggio è solo una parte del lavoro: in queste oasi è spesso necessario operare di nuovo gli orsi per rimediare ai danni creati in precedenza, nonostante gli animali non si lascino toccare neanche da chi li ha salvati. Bisogna far fronte a infezioni, malattie, mutilazioni fino a offrire un’assistenza psicologica: chiusi nelle loro gabbie gli orsi vengono cibati di solo riso, accumulando così carie e infiammazioni; nelle oasi viene offerto loro tutto il cibo di cui hanno bisogno, ma viene nascosto tra la natura affinché ritrovino la voglia di fiutare. Non si cerca quindi solo di salvare, ma si tenta anche di riportare alla vita l’animale. Eppure ancora c’è molto lavoro da fare: nel 2016 in Vietnam si ritiene ci fossero ancora 2400 orsi rinchiusi. “Qui le persone sono esposte alla violenza, – spiega Tuan Bendixen, direttore del Tam Dao Sanctuary, centro di riabilitazione e recupero – è normale andare al mercato, comprare animali vivi e ucciderli a casa”.

Il problema culturale però non sembra limitarsi ai soli confini vietnamiti o cinesi: sul mercato nero di tutto il mondo un orso tibetano vale 110 dollari, la sua cistifellea 700 dollari al kg e ogni zampa 710. Si sta causando il declino di una specie animale quando esistono altre 54 tecniche di erboristeria e di sintesi, sicuramente più costose ma alternative: nel 2013 il quotidiano inglese “The Guardian” annunciò che il colosso farmaceutico Kaibao Pharmaceuticals stava lavorando a una alternativa sintetica. Attendiamo fiduciosi.

di Irene Tinero

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