La “colpa” di un’innocente: l’omicidio di Giuseppe Letizia

Settant’anni fa circa, il primo omicidio di mafia ai danni di un bambino. Un triste primato, la porta su una lunga scia di sangue che quel 10 marzo 1948 porta il nome di Giuseppe Letizia, corleonese di dodici anni, ragazzino siciliano che della vita ha appena il tempo di conoscere la sua gente, la vita di campagna, la famiglia e la custodia del gregge.

Un bambino mai ha colpe, mai potrebbe meritare la morte e mai potrebbe cercarsela: ma per la criminalità di settant’anni fa Giuseppe Letizia ebbe la colpa di chi sa e vede qualcosa che non doveva vedere. Nel suo caso si tratta dell’omicidio, da parte di un gruppo di uomini, di Placido Rizzotto, sindacalista scomodo che lotta per i diritti dei contadini contro gli interessi dei mafiosi proprietari di terre. L’omicida è Luciano Liggio, al servizio di Michele Navarra, boss a capo di Corleone, ma in quel momento non si accorge di essere stato visto da Giuseppe, che però viene trovato dal padre in preda ad una febbre delirante. Il bambino racconta per come può quello che ha visto, quell’omicidio brutale e ai suoi occhi inspiegabile. A segnare la sua fine è però il fatto che Giuseppe viene condotto in ospedale a Corleone, e il direttore sanitario è proprio il boss Navarra, che capisce che ciò che il bambino sa può essere rischioso: Giuseppe non deve parlare.

La morte di Giuseppe diviene così ancora più subdola e squallida: il medico dell’ospedale gli diagnostica la tossicosi, e gli prescrive un’iniezione che lo uccide, probabilmente perché piena di veleno. È l’oblio però a cadere su di lui, sin dal giorno dopo la sua morte: la stampa locale definisce la sua morte come causata dallo shock per quello che aveva visto, e poi nessuno ne parla più. Un eroe a suo modo, se solo avesse potuto esserlo, ingiustamente rimosso dalla memoria storica.

Di Giusy Patera

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