Le croci ignote di forte Bravetta

Roma, 9 marzo 1944, 184° giorno dell’occupazione tedesca. Il tribunale di guerra tedesco sentenzia la pena di morte per atti di violenza a dieci persone. È un tributo che Roma deve pagare alla guerra, non è stato il primo e non sarà l’ultimo di quel periodo.

Dal carcere giudiziario di Regina Coeli a Forte Bra­vetta, era questo l’ultimotragitto dei condannati a morte, dal tribunale di guerra tedesco, nella Roma occupata nel periodo che va dall’ 8 settembre 1943 al 4 giugno 1944. Si usciva dalla cella am­manettati, si veniva caricati su un furgone si attraversava l’abitato, poi di colpo era subito campagna. Forte Bravetta, era piena campa­gna. Costruito alla fine dell’800 insieme ad altri forti per creare una sorta di linea fortificata. Era adibito in quegli anni di guerra prettamente a deposito munizioni e di pezzi di artiglieria, ma anche apoligono di tiro. Fu proprio per questo motivo che venne usato come luogo per le fucilazioni. La scena che il condannato, vedeva al suo arrivo, quasi sempre di mattina presto, era quella di un terrapie­no. Lì, ad attenderlo c’era sempre qualche magistrato e funzionario di regime e un plotone di esecu­zione.

A completare quello scena­rio di morte, c’erano delle sedie, una accanto all’altra fissate a terra da paletti. Ci si rendeva conto di quanti dovevano morire contan­do il numero di esse. Oggi Forte Bravetta, appare completamente diverso: la campagna ha lasciato il posto ad una intensa edificazione, rendendo la zona trafficata e po­polata. Passandoci davanti, pochiricordano quello che fu il Forte, forse solo le vecchie generazioni sanno cosa avveniva al suo inter­no, nel suo poligono di tiro.

Il 9 marzo 1944, i manifesti bilingue, con la svastica attaccati sui muri di Roma, sentenziavano le dieci avve­nute condanne a morte. Gli attacchini comunali nonostante le minacce, si erano sempre rifiutati di affiggere quei funebri manifesti, allora lo facevano gli attacchini della federazione delpartito fascista, scortati dai militi fa­scisti. Recitava il manifesto: “DIECI CONDANNE A MORTE PER ATTI DI VIOLENZA, il comando tedesco di Roma comunica: per atti di violen­za sono state condannate a morte le seguenti persone, Rattoppatore Guido, Bussi Antonio, Labò Giorgio, Gentile Vincenzo, Pasini Augusto, Fioravan­ti Concetto, Nardi Antonio, Negelli Mario, Lipariti Francesco, Lauffer Paul. L’esecuzione della condanna è stata eseguita mediante fucilazione”. I dieci furono fucilati per rappre­saglia. Pochi giorni prima era stato fatto saltare in aria, ad opera della resistenza, un autotreno di carburantedella Wehrmacht, destinato al fronte di Cassino, che causò la morte di tre soldati tedeschi. Uno dei condannati, lasciò ad un prete il suo ultimo mes­saggio pregandolo di recapitarlo al suo professore di architettura. Su quel foglietto c’era scritto “Labò Giorgio di Mario, nato a Modena il 29 maggio 1919, studente di architettura. Andare dal Prof. Argan. via Giacinto Carini 66. Monteverde. filobus 119, pregar­lo di informare la famiglia che lui è passato con la massima serenità”. Il professore Argan, in seguito fece il sindaco di Roma. Labò era il suo studente prediletto. Dirà poi Argan: “non mi sono mai interessato in quel periodo di politica, ma quel foglietto fra le mani mi provocò una fortissima emozione, avevo sempre ritenuto che un’intellettuale, dovesse essere supe­riore, lontano da certe cose. Quelle poche parole mi aprirono gli occhi, da quel momento, in me, iniziò l’impe­gno politico per la democrazia”.

I fuci­lati di Forte Bravetta dovevano essere seppelliti in modo anonimo. Venivano portati al cimitero del Verano, sempre la mattina presto e qui inumati in fos­se comuni, con indosso nulla che li potesse in seguito identificare. Questa era la ferrea prassi nazifascista. E’ solo grazie all’altruismo di alcuni impie­gati del cimitero, che a rischio della propria vita compilarono una sorta di verbale per ogni fucilato, se oggi qualcuno può piangere sulla loro tom­ba. Forte Bravetta resta oggi, il luogo simbolo della Resistenza romana, un luogo su cui riflettere. Dagli errori della storia passata si può imparare.

di Antonella Virgilio

 

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