Operazione ramoscello d’ulivo

Dal 20 gennaio, data del lancio dell’operazione Ramoscello d’ulivo, gli attivisti e la popolazione curda sono sotto attacco da parte dell’esercito turco e dei suoi alleati, i miliziani dell’autoproclamato esercito libero siriano.

Ora il ramoscello promesso dal presidente turco Erdogan è arrivato nel cantone curdo e ha sferzato i 250mila civili, tra residenti e profughi, dalla città di Afrin costringendoli alla fuga.

Quella che la Turchia sta guidando contro i curdi dell’unità di protezione popolare (YPG) nel nord della Siria – ufficialmente una battaglia contro il terrorismo – è una nuova guerra all’interno dell’ambiguo conflitto siriano, non una diversa fase di uno scontro etnico e di religione tra un regime dittatoriale e gli estremisti islamici.

I curdi siriani sono guidati da un movimento laico, composto anche da arabi, cristiani e assiri, che amministra in modo democratico e pacifico i territori che controlla e che ha avuto un ruolo fondamentale nella sconfitta dello stato islamico.

L’offensiva turca è iniziata dopo che gli Stati Uniti, alleati dei curdi nella lotta contro l’Isis, hanno annunciato il loro sostegno alla costituzione di una guardia di frontiera per contenere l’infiltrazione terroristica. Mossa che per Recep Tayyip Erdogan rappresenta un passo, inaccettabile, verso la nascita di uno stato curdo.

Obiettivo di Ankara è spazzare via ogni struttura autonomistica del Rojava – il Kurdistan occidentale -un territorio semi-indipendente posto sotto l’amministrazione dei curdi siriani e il suo progetto di confederalismo democratico. La Turchia vuole rafforzare la sua presenza nel nord della Siria e impedire una qualsiasi transizione politica che contempli una democratizzazione non solo formale. Certo non è irrilevante che su questo territorio si concentri il 60% delle risorse energetiche della Siria.

Le prossime mosse, già annunciate dal regime turco, sono la conquista di Manbij, a Kobane, a Tal Abyad, Ras al-Aïn e Qamichli.

Una volontà di potenza che non si ferma davanti alle vittime civili e che, con lo sfondamento delle difese di Afrin, aggiunge violenza a violenza. In città mancano cibo, medicinali e acqua dopo che l’esercito turco ha conquistato la diga di Meidanki, tagliato la fornitura di acqua e bombardato le stazioni di pompaggio. I cacciabombardieri turchi hanno anche, ripetutamente, colpito il sovraffollato ospedale della città assediata.

L’amministrazione autonoma ha lanciato un appello alle organizzazioni internazionali perché intervengano per condannare questi attacchi e perché vadano in soccorso dei civili in fuga attraverso il deserto di Shehba.

Quello che si sta consumando sotto gli occhi dell’Unione europea e nel silenzio della Nato, degli Stati Uniti, della Russia e dello stesso governo siriano è un vero disastro umanitario.

A nulla, finora, sono valse le manifestazioni di sostegno tenute In molte città europea a sostegno di un popolo che tenta di difendere la propria terra e un progetto politico: quello di un’autogestione multietnica e non confessionale, femminista e ambientalista.

di Enrico Ceci

Print Friendly, PDF & Email