il lotto 285 . capitolo sesto

“Deus mortem non fecit.” – Sapienza 1,13

Era un altro sogno. Mi trovavo in un luogo sperduto di campagna, intravedevo da lontano alcuni caseggiati che sembravano essere le propaggini di una qualche periferia della città. Il terreno sul quale mi trovavo era brullo, pianeggiante, con qualche avvallamento che ospitava rovine di passate costruzioni ormai disabitate. Su un’altura intravedevo quella che sarebbe stata una villa, con un terreno coltivato intorno, con canali per l’irrigazione ancora funzionanti, dato che si poteva scorgere un qualche brillio di corsi d’acqua. Questo mi fece tentare di avvicinarmi al luogo, che a prima vista sembrava deserto, per cercare di trovare una possibile presenza umana che mi facesse orientare, con qualche ulteriore indagine, su dove mi trovassi, e soprattutto in quale spazio temporale, visto che il sogno era completamente privo di riferimenti che mi facessero ricordare dove effettivamente mi ero recato, essendomi esclusa la parte iniziale di quello che avevo sognato. Percorrendo una lieve salita mi avvicinai alla villa, intorno alla quale si ergevano alberi ancora intatti e siepi di bosso che la delimitavano da tutte le parti. Il terreno all’interno del perimetro sembrava coltivato, alcune piantine, forse di patate o di pomidoro, spuntavano dalla terra, che sembrava concimata ed irrigata a dovere. Sulla parte anteriore della villa notai una breve scalinata che portava a quello che sembrava l’ingresso principale, costituito da un portale massiccio, tipico delle antiche costruzioni, con due battenti completamente sbarrati che facevano presagire che il luogo non  fosse stato ancora violato. Mi guardai intorno con circospezione, visto che quello sembrava un luogo che probabilmente era stato scenario di precendenti recenti bombardamenti e, fatti alcuni passi in direzione dello scalone, mi accinsi a mandare un richiamo, o perlomeno a fare segno della mia presenza, ai possibili abitanti della misteriosa costruzione. Ma, nel momento stesso in cui stavo per rivelarmi, vidi da una delle finestre che si trovavano sul lato sinistro anteriore della villa, scostarsi una tenda e comparire un volto di una persona che mi osservava, cercando di nascondersi nel contempo alla mia vista. Io allora feci a colui ( o costei, non riuscivo ancora a vedere bene la figura tanto da identificarla) un cenno come di richiesta di aiuto, che pensavo sarebbe stata recepita, visto il luogo semideserto e lontano dalla città in cui ci trovavamo. Finalmente il portale si aprì con un lieve scricchiolio, tanto da farmi pensare che quel battente non fosse mai stato aperto da anni e comparve un uomo alto, sulla sessantina, che indossava un’antica vestaglia color amaranto, ed aveva il viso cosparso di cicatrici, che ritenni fossero recenti, visto il leggero rossore che ancora le cospargeva. L’uomo, senza chiedere nessuna spiegazione sulla mia improvvisa visita, mi invitò ad entrare, con un fare ossequioso che non mi aspettavo da un individuo che a prima vista appariva stanco e provato, quasi privo di forze e con un sorriso stento ed assente. Mi fece accomodare in un vestibolo pieno di attaccapanni, ombrelliere e rastrelliere contenenti un numero imprecisato di vecchi panni, parapioggia di antica fattura e riviste e giornali che intravidi essere datati almeno di qualche anno addietro, posati alla rinfusa dentro le assi pieghevoli e pieni di polvere. Subito feci capire al mio misterioso anfitrione quali fossero le mie richieste, che non erano altro che sapere in quale luogo mi trovassi e come avessi fatto a raggiungere un qualche posto abitato dove avessi potuto ottenere la minima informazione su come poter raggiungere il centro della città, mia ultima meta. L’uomo fu da subito disponibile ad indicarmi una strada, ma prima volle informarmi dei pericoli che costituiva addentrarmi in luoghi a me sconosciuti che riteneva pericolosi per chiunque volesse percorrerli. Fattomi sedere quindi su un divano della sala di soggiorno di quella villa che sembrava avesse avuto, alla vista di un ignaro visitatore, un passato lussuoso, piena di stanze fra loro comunicanti, fra cui un ampio salone con un tavolo finemente lavorato, di grosse dimensioni, e sedie dall’alto schienale rivestite di velluto che lo circondavano, e pesanti tende alle finestre, sedendosi egli stesso su un’ampia poltrona posta a fianco del divano dovemi ero accomodato, cominciò a narrarmi quella che sarebbe stata alle mie orecchie la più straordinaria storia mai raccontata.

“Vivo in questa dimora da quasi sessantanni, i miei genitori erano originari di paesi lontani, uno oltremare e l’altro dominato dai monti del Nord, parlavano lingue diverse che però io appresi fin dalla mia tenera età, non avendo altri insegnamenti che quelli che impartivano i miei familiari e, seppure in età scolare, a causa dell’isolamento nel quale la nostra dimora si trovava, in aperta campagna, stentavo a raggiungere il luogo di pubblica istruzione che distava notevolmente, essendo la ferrovia l’unico mezzo per raggiungerlo. Ma ben presto mi adattai a quella vita solitaria, lontano dal mondo e da amicizie, che peraltro mi consentiva di esercitare in una sorta di introspezione che mi sarebbe stata utile negli anni a venire.

In quegli anni, subito dopo la Grande Guerra, purtroppo, si instaurò nel nostro paese un regime dittatoriale. I miei genitori, pur appartenendo ad una classe agiata, o forse proprio per questo, vennero perseguitati per il semplice motivo di appartenere ad una presunta razza ed a una religione non confacente con le direttive di tutela  di un’altra presunta razza imposta dalle leggi inique di quel regime. Ci trovammo quindi ben presto nella condizione di esiliati, scacciati dalla comunità dalla quale, per condizione e censo, in qualche modo appartenevamo. Mio padre perse il lavoro, avendo rifiutato di schierarsi a favore di quel regime imbelle ed oppressivo, e mia madre fu costretta ad umiliarsi andando a servizio di quelle famiglie che prima la rispettavano e la consideravano parte del loro mondo. Io intanto crescevo e maturavo in cuor mio un odio ed una repulsione nei confronti di quei gerarchi che spadroneggiavano nei posti di lavoro, nelle scuole e nelle università, da farmi intraprendere presto una strada che mi avrebbe condotto ad una ribellione ben più consistente, quella cioè di prendere le armi contro quel regime imperante e che ci stava conducendo a quella catastrofe che ora viviamo.” Dopo quella confessione il volto del vecchio appariva ora come rinato, i suoi gesti, dapprima lenti e contratti, erano adesso più vivi e decisi, tanto che si alzò dalla poltrona e mi invitò ad avvicinarmi alla finestra che dava su quello che appariva un  campo più che un giardino, di fronte alla casa. Ma, nel momento in cui scostava le tende con gesto deciso, vidi il suo volto impallidire di colpo, come folgorato da una visione ultraterrena. Un pipistrello, forse una nottola, era abbarbicato alle persiane con le ali puntute distese per tutta la loro lunghezza, gli artigli aggrappati saldamente alle sbarre e gli occhi vitrei che ci fissavano. Alle sue spalle il sole era tramontato e si profilava una notte che per entrambi sarebbe stata piena di incubi.

(continua)

di Maurizio Chiararia

 

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