Un giorno del ricordo in Palestina

Il 30 marzo è un giorno che unisce tutti i Palestinesi nel ricordo dell’esproprio delle terre di proprietà degli arabi in Galilea e dell’uccisione di sei palestinesi, con cittadinanza israeliana, che protestavano contro la confisca.

Nel quarantaduesimo anniversario della Giornata della terra è partita, per i Palestinesi rinchiusi a Gaza, la marcia del ritorno che si concluderà il 15 maggio, anniversario della nascita di Israele.  Un intero popolo si è messo in cammino verso la barriera che intrappola Gaza e i suoi abitanti e segna il confine con lo stato ebraico.

Obiettivo della Marcia è il “diritto al ritorno”, la possibilità per i discendenti dei rifugiati di tornare nelle loro case di famiglia, sui territori che oggi sono controllati dallo stato israeliano, attraverso l’attuazione della  Risoluzione 194 che afferma il diritto al ritorno dei rifugiati, approvata dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel lontano dicembre 1948.

E ’difficile immaginare quanti di loro moriranno prima della fine di una manifestazione nonviolenta che si è ormai trasformata in un bagno di sangue.

Israele, che teme minacciato il carattere ebraico del paese, ha considerato la manifestazione “un deliberato tentativo di provocare uno scontro con Israele” e per questo ha schierato esercito e i cecchini sul confine con Gaza.  Il bilancio dei primi tre venerdì  è di 12 morti e oltre 3.000 feriti. Tutti palestinesi.

I militari israeliani sostengono che «l’organizzazione terrorista Hamas sta mettendo in pericolo gli abitanti della Striscia di Gaza e li sta usando come copertura per azioni terroriste. Hamas è responsabile di tutti i fatti e delle loro conseguenze». L’esercito sostiene, inoltre, di aver sparato contro gli istigatori della rivolta. Per l’associazione Human Rights Watch, però, “il governo israeliano non ha presentato alcuna prova che il lancio di pietre e altre violenze da parte di alcuni manifestanti abbia seriamente minacciato i soldati israeliani attraverso la barriera di confine”.

Secondo i funzionari palestinesi è stato, deliberatamente, aperto il fuoco contro i dimostranti e Abu Mazen – presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) – accusa Israele di essere “pienamente responsabile dell’aggressione a Gaza e della morte dei palestinesi”.

Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, ha chiesto “un’indagine indipendente e trasparente” sugli scontri ma Israele si oppone e il Consiglio di sicurezza non ha deciso nessuna azione né rilasciato  dichiarazioni.

Si direbbe niente di nuovo sotto il sole. Una terra, due popoli, un’occupazione pluridecennale, nessuna volontà di accordo e il silenzio colpevole della comunità internazionale.

Ma al peggio non c’è mai fine. Il continuo clima di tensione sta cambiando in peggio entrambi i contendenti. La politica del governo israeliano è cieca e sorda ad ogni ragionevole tentativo di pacificazione mentre il popolo palestinese è stremato ed indebolito dalle divisioni tra Hamas e  Al-Fatah.

E tutto intorno è l’inferno.

di Enrico Ceci

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