Loro 1: l’o-sceno-visiografico oltre schermo

Se il cinema d’autore si è sin qui attenuto alla politica, alla storia e ai suoi tragici o nobili protagonisti, che cinema si dà ora nell’era di un declino della politica segnato proprio dall’avvento di leader che sono già in via psicosomatica caricature, maschere di quel Bagaglinocollettivo dell’assurdo? Proprio come il Lui nel film Lorodi Paolo Sorrentino. Qualcuno ha parlato di cinema post-contemporaneo, ma forse è più proprio parlare OCGM, Organismo Cinematografico Geneticamente Modificato. Per restituire nel suo stile ormai consolidato il paesaggio messo in macchina, il regista ricorre infatti a un cinema “Pratica o Plastica di Mare”, esasperandolo in una immaginifica quanto rutilante serie di fondali scenografici, immaginati e infilati uno dietro, dentro l’altro fino all’oltre-schermomaxillo-facciale di Toni SilvioServillo.Se siamo in una qualche dimensione post, essa è davvero quella del post-cinematout-court.

E questa è solo la prima puntata, Loro 1. La successiva, Loro 2, esce nelle sale giovedì 10 maggio. Parliamo di puntata, perché ormai siamo al meccanismo delle serie tv applicato al cinema. Inutile tentare di sintetizzarne la trama, un film così non si può neanche raccontare, spoilerare, per usare un anglismo in voga. Si deve solo vedere. Sono immagini di visioni scenografiche, nel senso di veri e propri colpi d’occhio scenico-immaginificidi situazioni d’ambiente, realizzati con il massimo di glamour cromatico diurno o da giungla carnale notturna, con tanto di tende, luci, torce da penombra, vuoto di sensi ed esistenze. Visiografieda narrazione non verbale ma solamente ottica. Impossibili da rendere pienamente in parole. Si coglie un riferimento a The Wolf of Wall Streetdi Martin Scorzese, ma in esso non c’è solo la contrapposizione tra la vitalità giovanile dei nuovi tecno-leoni della Borsa e la decadencesenile, pagliaccesca di Lui-Berlusconi. No, forse la contrapposizione va un po’ più in là e riguarda proprio lo specifico narrativo-cinematografico. Nel film del regista americano c’è ancora una connessione di fondo tra la struttura formale del sistema d’immagine e quella narrativa dei contenuti. Una stratificazione dell’immagine nei contenuti e viceversa. Sorrentino, invece, non mette in scena, ma direttamente in scenografia, anzi in o-scenografiacoreografica, musicante, vorticante la materia delle sue riprese e del suo montaggio.

Nello spostamento del parallasse cinematografico epocale, insieme al senso di spiazzamento e vertigine, non si sfugge però neanche alla sensazione del vuoto che ti rimane tra gli occhi, la mente, il gusto e il pensiero dopo tanta rotazione assiale. Cosa si stringe, cosa si afferra, cosa resta? Lo diciamo nel senso di quel fondo drammatico dell’umano e del sintetico-poetico che il grande cinema d’autore deve saper attingere e che finora è riuscito ad attingere, andando anche oltre i temi e i generi della narrazione prescelta. Se siamo, però, al passaggio di quell’evoluzione genetica del cinema di cui si diceva, a una sorta di post-cinema dell’era digitale, che senso ha più i concetti stessi di forma, contenuto, con i quali la cara vecchia settima arte era capace di sintetizzare un qualche valido, per quanto provvisorio senso drammatico-esistenziale. Berlusconi stesso non è più un contenuto narrativo del reale ma solo una superfetazione o-scenografica del fax-simile filmico. Il senso è tutto ormai nel sorprendente, nell’eccedente, nell’esplodented’immagine oltre lo schermo. Non avrai altro senso all’infuori del vi-dio-grafico mio. C’è una frase di Giorgio Manganelli posta in esergo al film: “Tutto documentato. Tutto inventato”. Ecco, è come se la seconda parte del binomio fosse la crisalide che si libera del vecchio cine-bozzolo di verità per prendere poi il volo quale nuovo invadente ultra-corpo alato.

di Riccardo Tavani

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