Il lotto 285 – capitolo nove

Capitolo nono

“… Se voi, però, non volete armarvi degli altri quattro, lasciata pure stare.  Vuol dire che ne porterò uno soltanto io, in qualità di capo. Ma noi non dobbiamo avere un capo, e perciò anch’io spezzerò e metterò da parte il mio fucile…” (Franz Kafka)

Il sole era già alto quando mi mossi da quel luogo, non senza aver lasciato i numerosi biglietti al loro posto e averli coperti come li avevo trovati. Mi aspettava una faticosa camminata lungo la linea ferroviaria che sapevo mi avrebbe condotto all’interno della borgata e forse, se ero fortunato, ad una stazionzina dove avrei preso un qualche treno che mi avrebbe portato, finalmente, alla capitale. Arrivato che fui alle prime case mi accorsi subito della vastità del luogo, un grosso agglomerato di costruzioni basse e senza intonaco, attraversato da strade sterrate e polverose. A metà di una strada più larga ed asfaltata, che doveva essere la via consolare che portava alla capitale, si apriva una piazza in mezzo alla quale si ergeva una chiesa dalla facciata austera di mattoni a vista, con un piccolo rosone con una vetrata in stile futurista e un corto campanile squadrato, alla cui sommità si poteva scorgere una specie di terrazzino con quattro aperture attraverso le quali si intravedeva una sola campana. Il luogo di culto sembrava essere più un fortilizio con una torretta di guardia che una chiesa aperta ed accogliente che ispirasse la devozione. Lo stesso stile razionalista aveva contaminato il palazzo del municipio, un unico blocco di pietra arenaria, senza alcuna decorazione, e la Casa del Fascio, di più recente costruzione, che consisteva in un alto cilindro ricoperto di travertino, con qualche piccola finestra ed in cima, applicata al centro, ben visibile, una scultura rappresentante una fascina mozzata e legata alle estremità con in mezzo una scure.

Dopo essermi finalmente addentrato nel cuore della borgata mi accorsi che era semideserta, alcune persone sedevano davanti a un bar e giocavano a carte, cani randagi vagavano in cerca di cibo, ma le case avevano le finestre sbarrate, con i vetri all’interno ricoperti da cartone e fogli di giornale, così che sembrava fossero state abbandonate, oppure gli abitanti temessero che qualcuno potesse scrutarli dall’esterno. I recenti bombardamenti non avevano certo favorito l’uscita delle persone all’esterno, anche se ciò sarebbe stato più opportuno per evitare possibili crolli di quelle abitazioni già fatiscenti col pericolo di rimanere intrappolati fra le macerie. Ma la popolazione, in massima parte proveniente dalla campagna, che si era stanziata in quel luogo solitario ed aveva costruito con le proprie mani, pur non avendo nessuna conoscenza edilizia, la maggior parte di quelle case, purché vivesse lontana da quei campi che ormai non davano più frutti, era determinata a non lasciare quelle quattro mura, anche se avessero subito ulteriori incursioni da parte dell’aviazione alleata, o i depredamenti da parte delle truppe nemiche.

Continuando ad addentrarmi nella borgata, non avendo altra meta che quella di uscirne, mi inoltrai in un lungo viale sterrato che conduceva ad una serie di caseggiati, tutti uguali, contornati da un alto muro con un’unica porta che dava sulla strada. Per la sua dimensione e per il perfetto allineamento delle basse case pensai si trattasse di una caserma abbandonata. Oltre il muro, a breve distanza, si scorgeva una pozza  di acque scintillanti, che doveva essere stato uno stagno, quasi del tutto prosciugato, probabilmente dalla calura estiva, che faceva da contorno ad un ampio spazio pianeggiante che si sperdeva a perdita d’occhio oltre l’orizzonte, attraversato da lunghe piste che facevano pensare ad un terreno che fosse stato appena arato, solcato da trattori, erpici, ed altri mezzi di coltivazione. Ma subito mi convinsi che quel luogo corrispondeva ad un campo d’aviazione che avevo visto segnato sulla carta che ancora era con me, che non mi aspettavo di incontrare  così vicino alla città. L’aeroporto, privo di aerei, con un’unica torre di controllo semidiroccata e solo due hangar dalle porte divelte, era contornato da un esile cinta di filo spinato e sembrava anch’esso del tutto abbandonato. Pensai quindi che la caserma davanti alla quale mi trovavo dovesse essere stato l’alloggio del personale addetto alla cura del campo e degli aerei, nonché dei piloti che si alzavano frequentemente in volo per contrastare le forze nemiche. Ma le abitazioni, per quanto confortevoli, rimanevano inanimate ai miei occhi, salvo notare, nel cortile davanti ad esse, un qualche movimento che era costituito da alcuni ragazzi che giocavano a rincorrersi, ignari del pericolo che li sovrastava, probabilmente sfuggiti al controllo dei genitori, che, presumevo, rimanevano nascosti all’interno di quelle abitazioni. I ragazzi, ancora con i pantaloni corti e le scarpe pesanti, dalle quali si intravedevano bianche e spesse calze, adatte a lunghe camminate per raggiungere la scuola, si scambiavano alte grida lanciandosi a vicenda, correndo, un oggetto scuro,  dalla forma rotondeggiante che più che una palla sembrava un ordigno, con tanto di anello ad una estremità, che subito mi accorsi essere una bomba a mano. Cosciente del pericolo che tale gioco rappresentava per quegli ingenui adolescenti, corsi verso di loro ma in quel momento udii una deflagrazione proveniente dal gruppo e vidi una fiammata ed un disperdersi immediato dei giocatori, spinti da un’onda d’urto in tutte le direzioni, lasciando a terra uno di loro, sanguinante, che si reggeva un braccio, inebetito, senza un grido, e si voltava verso di me come per chiedere soccorso. Inorridito, avvicinandomi al ferito, mi resi subito conto del danno che quella esplosione aveva comportato. Tre dita della sua mano non esistevano più ed una lunga scia di sangue si spandeva sul terreno, ma quello che più mi colpì fu l’odore intenso della carne maciullata, un odore acre e rivoltante, come quello che si aspira dopo un incendio, che ancora porto nelle mie narici. Subito dopo, avendo udito quello scoppio, accorsero i pochi inquilini che si erano barricati in casa, forse anche i genitori del ragazzo, che continuava a rimaneva ancora in piedi e barcollava, incredulo dell’evento disastroso che gli era capitato, verso le scale di una delle palazzine. Non mi chiesi, a quel punto, se una di esse non costituisse l’agognato Lotto 285, ma fu solo per pietà verso il ragazzo che adesso si accasciava sugli scalini.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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