Quando il teatro si fa terzo paesaggio

Il Manifesto del Terzo Paesaggio è il titolo di un libro di Gilles Clément del 2005. È un chiaro riferimento al pamphlet del 1789 dell’abate e teorico della rivoluzione francese Emmanuel Joseph Sieyès. Cos’è il Terzo stato?,si domandava il titolo di quel piccolo potente libro. “Tutto. Cosa ha fatto finora? Niente. Cosa aspira a diventare? Qualcosa”.

Dal Terzo Stato di Sieyèsfiorisce il Terzo Paesaggio di Clément, e da questo un Terzo Teatro di Tamara Bartolini e Michele Baronio. La fioritura si potrà vederla, ascoltarla la sera del 14 giugno prossimo sulle tavole Teatro di Villa Torlonia a Roma, sulla Via Nomentana, a un centinaio di metri appena da Porta Pia. Il Terzo Stato erano tutti i ceti, gli strati sociali su cui prima della Rivoluzione gravava il peso della nobiltà, del clero, dell’amministrazione statale, dei soprusi, delle tasse, senza che avessero il diritto ad alcuna rappresentanza politica, istituzionale e ad alcun diritto sociale. Il Terzo Paesaggio  di Clément sono tutti gli spazi – dai più piccoli ai più estesi – su cui grava il peso della distruzione ambientale, il consumo divorante del suolo, l’abbandono e le macerie di un’archeologia ferro-cementizia che devasta le radure interiori della coscienza prima che quelle esterne dei territori. Gilles Clément è docente presso l’École Nationale Supérieure du Paysage de Versailles, scrittore, realizzatore di alcuni notevoli ambienti paesaggisti che hanno influenzato generazioni di paesaggisti in tutto il mondo. Nella sua opera teorica, saggistica, pratica Clément ha cercato di dare rappresentanza politica, poetica, civile, sociale al Terzo Paesaggio, fino a rivendicarne un diritto alla resistenza  al pari dei popoli oppressi e sfruttati. La Compagnia Bartolini/Baronio ha scelto uno dei suoi libri più recenti per chiudere la terza stagione dei loro Red Reading. Il libro è Ho costruito una casa da giardiniere, Ed. Quodlibet, 2014. L’autore racconta la dolorosa vicenda personale di non poter più mettere piede nella casa dove è nato nella campagna francese, per una odiosa questione legale di famiglia. È affranto, il cuore e lo sguardo opachi. La vecchia casa alle spalle, ha davanti a sé solo il giornobianco, un paesaggio vuoto. Bianco e vuoto non solo di tristezza, di rovina, ma anche di possibilità. Riscopre così un luogo non lontano, nel quale da bambino aveva impastato giochi e materia botanica, faunistica. Là decide di costruire la sua casa, ma lo fa da giardiniere, ossia insieme a tutte le creature di ogni specie, animale, vegetale, minerale, rara, pregiata, dozzinale, calpestata, abbandonata, liminale – ossia al limite dello spazio e della percezione – che non tanto popolano quanto sono direttamente quel luogo. E insieme anche a tutte le creature umane, ai personaggi che hanno depositato scie ataviche di passi attraversando la mappa di quel luogo, o lasciandone di transitorie, evanescenti, ma che ugualmente ne segnano la storia.

Tamara Bartolini e Michele Baronio si erano già riferiti alle tematiche di Clément nel loro importante lavoro Dove tutto è stato preso, rappresentato lo scorso anno al ridotto del Brancaccio di Roma (Stampa Critica N. 21/2017). Al centro di quella pièce il luogo interiore ed esteriore della casa, della città, del tradimento o della lealtà verso gli spazi da lasciare ai figli, ai nipoti, a chiunque nel flusso di parole, tempo, coscienza sarà sempre presente, ossia attuale la nostra testimonianza. Esso diventa anche il luogo della lingua, della voce, del testo e del gesto teatrale, dell’azione scenica in tutta la sua antiretorica, poetica scarnezza.

Per Clément c’è un solo modo per non tradire il luogo del dialogo, del discorso sulla casa. Non c’è foglia, erbaccia, fenditura sghemba, pietra umida o secca, fauna e flora infinitesimale, che non debba partecipare all’esistenza di quell’inaudito modo di abitare. Discorso, dialogo abitativo perché edifica innanzitutto un noi. Un noi che dimora e parla in me. Dialoga nella muta scena interiore della mia infanzia, canta nel mio verdiano coro a bocca chiusa e pensiero aperto, muove i passi e le labbra di quel noi che va a far risuonare le luci e scricchiolare le assi del palcoscenico sotto i suoi piedi. Il noi botanico, di orti, rovine urbane, cui restituire voce, possibilità nelle nostre città, può estendersi fino agli orti di guerra, al diritto di resistenza tra le rovine belliche di Kobane. Si pensa erroneamente che il noi scaturisca dalla somma dei singoli io, mentre avviene esattamente il contrario. La sfera originaria del noi si individualizza nell’irripetibile singolarità degli io che ognuno di noi poi va a rappresentare sulla scena del mondo.

L’uomo giardiniere di Clément è il giardiniere planetario, quello che ogni volta che ha finalmente una porta da aprire e a cui tornare, può andare via, trasmigrare verso altre pluralità botaniche. I Red Reading di Bartolini/Baronio sono così un’inflorescenza perfetta tra scena e giardino, tra Terzo Paesaggio e Terzo Teatro, proprio per la collettività di voci, testimonianze, pagine lette, stratificazioni di memoria e oblio, ombre di futuro suonate, cantate, animate.

REDREADING#13 Un giorno bianco, dove il noi dimora in me. Giovedì 14 giugno, ore 20:00
Teatro di Villa Torlonia, Via Lazzaro Spallanzani, 1 A, (Via Nomentana), Roma

di Riccardo Tavani

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