L’inviolata radice che in Lazzaro risorge

Di cosa è simbolo Lazzaro Felice? Di una radice. Una radice come essenza. Nella sua purezza, nel suo candore di essere radice. Essenza nel buio e non ancora pianta nella luce. Difficile estirpare una radice, perché è difficile vedere dove sia. Il sottosuolo la nasconde, la protegge e la fa risorgere. Come Lazzaro. Ma senza “L’alzati e cammina” di Gesù. In una scena del film vediamo Lazzaro indicare le piccole piante commestibili che crescono ai margini dell’asfalto, nelle crepe del cemento in angoli di devastazione urbana e desolazione umana. Se ci sono quelle piante, vuol dire che sotto, da fenomeno non visto, le radici si fanno all’improvviso Lazzaro risorto, ponte diretto tra uomo e mondo, tra natura e parola, tra dolore e candore. La radice nel sottosuolo non ignora, non nega il dolore, la violenza umana di superficie. Ma per quanto bitume, cemento, abusi, rifiuti, sfruttamento umano e ambientale abbiano ricoperto, martirizzato l’epidermide viva della superficie terrestre, le radici più profondamente nascoste sono ancora in grado di inviarci il candore fenomenico di Lazzaro. Fenomenico perché la sua parola ci appare sullo schermo cinematografico come visione di una radice interiore. Radice sepolta, eppure affiorante, sotto i bordi ormai sgretolati, i margini abbandonati di quella cementificazione, urbanizzazione del tempo umano che Pasolini ha chiamato “genocidio culturale e antropologico”.

Alice Rohrwacher ridà così immagine a una radice che è tanto antropologica quanto inseparabilmente cinematografica. Non si limita, però, soltanto a tornare alle facce, alle voci, alle lezioni cine-antropologiche di Zavattini, Pasolini, Olmi, ma fa riapparire all’improvviso la necessità permanente del cinema di manifestarsi, di darsi come fenomeno, ossia quale visione della radice nascosta: allo sguardo e alla memoria. Ma già per quelle facce, per quelle voci, per quei luoghi che mette, anzi, resuscita-in-scena, alla regista andrebbe assegnato un premio speciale per le ricerche in mezzo alle campagne e le avvedutissime scelte compiute. Non una faccia, un gesto, una battuta – fosse anche secondaria – sbagliate. Adriano Tardiolo, il Lazzaro protagonista, è davvero la reincarnazione di tutte le stratificazioni di personaggi spogli, disarmati, angeli tra le zolle, santi loro malgrado, diavoli senza pane, capri espiatori designati che fiabe, leggende, credenze hanno sedimentato nei secoli nell’immaginario più profondo della civiltà.

Una radicalità, una sinteticità poetica esistenziale che nel candore della favola antropologica denuncia l’inganno della spietata realtà sociale. Realtà sociale che proprio Pasolini sintetizza in una celebre frase fatta pronunciare da Orson Welles in La Ricotta, episodio da lui girato dentro il film collettivo del 1963 (Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti) Ro.Go.Pa.G. “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”, diceva Welles-Pasolini in quella scena. Il regista friulano coniava tale lapidaria sentenza sulla scorta di precisi dati statistici alla mano. Passato più di mezzo secolo da quella realtà e da quel film, la spietatezza dello sfruttamento e del genocidio culturale di un popolo ha solo cambiato faccia, aggiunto modi, etnie, colore della pelle degli schiavi, non la sua cieca arroganza. Uno ieri e un oggi in cui si snoda temporalmente lo stesso racconto della Rohrwacher. Un passato in una tenuta agricola nel centro Lazio, L’Inviolata, dentro una valle chiusa, isolata, dove non arriva nessuno; un presente nella disgregazione metropolitana di quel ceppo contadino oggi trasformato in un collettivo e postmoderno Accattone, tra la plastica e le ortiche ai bordi degli scali ferroviari urbani. Tra la catastrofe antropologica del passato e il dirupo senza speranza squarciatosi nel presente c’è la morte e la resurrezione di Lazzaro. Il miracolo accade sempre nel tra. Tra ieri e oggi, tra realtà e favola, tra aurora e oscurità. Su queste soglie di passaggio riappare il senso puro, ingenuo,incontaminato di una luce originaria rimasta intatta sotto le rovine stratificate del tempo. Quelle stesse soglie ormai invisibili in cui è stato spinto il lupo, lo spirito stesso della natura. Nelle fiabe i popoli conservano questo senso d’intangibilità del candore contro ogni orrore perpetrato nelle viscere stesse della sua storia. Così rimane Lazzaro: intatto, con la stessa faccia, gli stessi riccioli, la stessa voce, le stesse inflessioni dialettali, gli stessi gesti d’aiuto, gli stessi pantaloni tenuti su con uno spago e la stessa maglietta bianca ruvida a mezze maniche. Tutto il passato contadino, dai nobili padroni schiavisti, al Capo-fattore aguzzino, ai sopravvissuti di quella mezzadria fuorilegge, degenera, collassa, va in pezzi, ma Lazzaro risorge. Lui: che non si è mai saputo neanche di chi fosse figlio.

Simile a uno stralunato Davide, con in tasca la rudimentale fionda che gli aveva regalato – al tempo dell’Inviolata, quale segreto patto di fratellanza – il marchesino Tancredi De Luna, Lazzaro affronta quel Golia che riduce il popolo moderno a nuove forme di analfabetismo, mezzadria, schiavitù monetaria. Ossia: la Banca. Lo spirito insaziabile del profitto che tutto sbrana, divora, disbosca, spiana, asfalta, ferro-cementa di fronte all’idiota, al semplice, che è sempre tra: tramite di angelo, lupo e bosco. Perché è proprio questo la posta in gioco del futuro: o risorge insieme a Lazzaro tutta la soglia della natura, ora stuprata e ridotta a desolato margine, o la radice comune che prevarrà sarà quella dell’umana, troppa umana violenza sul mondo. E sul cinema. Perché sempre più i film sulle periferie umane devono fare ricorso allo spettacolo della violenza e della sua vittoria contro ogni speranza. Lazzaro Felice, invece, si svela come un’opera d’arte che – pur nella rappresentazione realistica della disperazione – dà molta materia poetica, di pensiero critico e risorgenti possibilità su cui riflettere. Un capolavoro destinato a segnare gli albori di questo millennio.

di Riccardo Tavani

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