Splendori e miserie di Russia 2018 – parte 2

In Russia sono cominciate le giostre degli ottavi, ma questi Mondiali hanno già dato le prime sentenze, precise e insindacabili.

La Germania innanzitutto. Colpiti dalla maledizione dei Campioni del Mondo in carica, come l’Italia nel 2010 e la Spagna nel 2014, i tedeschi hanno finito il loro girone all’ultimo posto, dietro a Svezia, Messico e Corea. Appena quattro anni fa celebravamo il loro calcio arrogante e fluido, leggero e letale. Sette gol rifilati al Brasile, dopo la Coppa del Mondo anche la Confederantions Cup. “Il trionfo della Germania multietnica” si leggeva allora sui quotidiani di mezza Europa: ieri c’erano i polacchi Klose e Podolski, oggi i turchi Khedira, Ozil e Gundogan, il sierraleonese Rudiger, il ghanese Boateng e lo spagnolo Gomez. Da punto di forza a capro espiatorio. Perchè la clamorosa eliminazione della Germania ha subito scatenato processi e verdetti. Tra questi quelli dell’AfD, Alternative fur Deutschland, partito dell’ultradestra: “Ai prossimi Mondiali di nuovo una squadra veramente tedesca”, ha scritto su Twitter l’assessore berlinese Jessica Biessman, “Senza Ozil avremmo vinto” dice invece il deputato Jens Maier. Quando il problema è difficile, serve una soluzione semplice. L’accusa allo straniero, in genere, è quella che va per la maggiore per risolvere tutti i mali, dai posti di lavoro all’eliminazione dalla Coppa del Mondo.

L’altro verdetto è quello della Svizzera, passata agli ottavi contro ogni pronostico. Prima grazie ad Akanji, difensore di origini nigeriane di 22 anni che ha bloccato il Brasile di Neymar, poi grazie a Shaqiri e Xhaqa, che con due gol hanno mandato a casa la Serbia. I due giocatori sono stati multati dalla Fifa per aver festeggiato le reti mimando, con le mani, l’aquila bicipite, simbolo della Grande Albania. Entrambi i giocatori sono di origini kosovare, repubblica parzialmente riconosciuta che ha dichiarato la sua indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008. Grandi tensioni c’erano state già quattro anni fa, durante le qualificazioni per gli Europei 2016 tra Serbia e Albania: era stato fatto planare un drone fino in mezzo al campo con la bandiera della Grande Albania, un’area geografica che comprende tratti di Macedonia, Montenegro e Grecia, per riunire tutti gli albanesi nella stessa nazione. Un gesto che ha fatto scandalo ma che ha trovato solidarietà. Lichtsteiner, capitano della Svizzera, ha esultato come i suoi compagni pur non avendo nessun legame con il Kosovo: “È stata una gara molto dura per loro mentalmente. Questo è più che calcio. Loro hanno avuto la guerra, li capisco, è parte della vita e prima della partita sono stati provocati”.

L’ultimo verdetto è quello che riguarda le nazionali africane. Tunisia, Marocco, Egitto, Senegal e Nigeria sono tutte fuori, eliminate dalla fase a gironi. Aldilà dei discorsi tecnici, degli errori tattici, delle rivoluzioni necessarie e delle promesse mancate, una storia merita di essere raccontata. È quella del Senegal di Koulibaly, difensore centrale del Napoli. Li chiamano i Leoni de la Teranga e non centrano sangue, savane e battaglie. La teranga è l’ospitalità, l’accoglienza. Dello straniero, come Bruno Metsu, biondissimo allenatore francese che li aveva guidati, nei Mondiali del 2002, fino agli storici quarti di finale e che è morto cinque anni fa. La teranga è saper accogliere il dolore, come quello del loro allenatore, Aliou Cissè, che dopo quei Mondiali vide morire la sua famiglia e altre mille persone nel tragico naufragio del traghetto Joola, sulle coste del Gambia. La teranga è ospitare e saper essere ospitati. In tutti gli stadi russi in cui il Senegal ha giocato, i suoi tifosi a fine partita hanno pulito la porzione di spalti da loro occupati. La teranga è saper accogliere il diverso, che a volte fa paura, come la sconfitta, e saper ripartire.

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