Il lotto 285 – Capitolo dodici

“Di un sogno rimangono più il luogo e la sua dimensione che gli accadimenti veri e propri. Anzi, i residui di un’azione che ricordiamo sono come assorbiti e liquefatti dall’ambiente. Molte volte addirittura in sogno non accade niente ed è la superficie immobile che da l’impressione di magiche storie e movimenti. Le figure balzano dal nulla rimanendo nulla: le sostanze corporee non sono altro che estratti dell’uniformità del sogno.  Il sogno per se stesso è bianco. Se altri colori intervengono scaturiscono sempre dal bianco, che rimane come sfondo. è quella la luce della presenza costante del corpo addormentato. Le circostanze esterne si distendono in ordine di dipendenza sul piatto biancore. Per conto mio, non ho mai sognato che scialbe presenze poco riconoscibili e senza alcuna fisionomia. Ciò perché ero e sono tanto attaccato al corpo addormentato come a quello sveglio. Mai ho sognato persone o luoghi conosciuti. Il mio sogno era ed è tutta un’estensione di me stesso fino a una dilatazione enorme della superficie reale. Né posso dire che i fatti reali erano tanto trasfigurati nel sogno da non poterli riconoscere, perché da un particolare sarei potuto risalire all’origine di essi. Invece ebbi davanti a me luoghi uniformi come scarpate altissime, strade infinite, né la scena, una volta inquadrata, mutava.  Poche volte, ed avvedendomene, sognavo fatti che mi concernevano vivamente, ma quelli erano semplicemente la continuazione dei miei pensieri prima di addormentarmi, non un vero sogno. Mai mi vennero ricordi perduti, capovolgimenti improvvisi, personaggi che rispecchiassero il mio comportamento o l’altrui. Solo una notte nella notte, un bianco che doveva essere scritto, ovunque un senso di attesa, di vuoto, se io non riempivo abbastanza, con la mia presenza inavvertita, il teatro deserto del sogno.”

da “Alfabetario” di Maurizio Chiararia

Ma la mia avventura era lungi dall’essere finita. Uscii ancora un pò frastornato  da quel luogo di morte e mi trovai all’esterno che il sole era calato completamente  e si avvicinava una notte senza stelle, essendo l’atmosfera ancora cosparsa dai residui dei fumi che si ergevano dalle zone colpite dai bombardamenti. Vedevo in lontananza la città coperta da una coltre scura, simile a un luogo che fosse stato dipinto con colori smorti, grigiastri, i cui contorni erano solo qualche altura che si scorgeva ancora lontana nella nebbia. Sulla stessa strada che conduceva fuori dalla borgata c’erano l’ospedale e, poco più lontano una stazioncina, il cui ingresso era coperto da una grata di ferro che sembrava essere stata costruita per salvaguardare l’ingresso dal sole e dalle intemperie.

Passando davanti all’ospedale notai una strana calma. Né ambulanze, né personale sanitario, né pazienti affacciati alle finestre. Un ospedale, pensai, non può essere abbandonato, anzi, in quelle giornate di guerra doveva essere più che mai affollato. Avevo udito infatti gli echi di cannoneggiamenti venire dalla campagna più prossima alla città, ma lì, in quel luogo sperduto di borgata, sembrava che gli obici non avessero fatto danni, tanto più che non si vedevano truppe e mezzi blindati che passassero per lo stradone principale che si dipanava lungo la borgata e che sembrava condurre alla capitale. Solo uno squarcio si poteva notare nel muro di cinta, dovuto, pensai, ai furiosi bombardamenti che si erano succeduti il mese passato sulla capitale.  Continuando il mio cammino raggiunsi la stazione che, notai aveva solo due linee di binari che forse la facevano essere un luogo di passaggio, poco frequentato da treni e da persone. Era la stessa stazione, mi ricordai, che raggiungevo, anni addietro, dopo ore di faticoso cammino, con i miei genitori per poi aspettare un treno che ci avrebbe condotto al centro della città. A pochi passi dalla stazione d’arrivo ci aspettava una nostra cugina la quale gestiva la cassa di un noto cinema lì vicino, che fungeva anche da planetario, con tanto di giganteschi macchinari che proiettavano sulla volta il firmamento in tutti i suoi particolari. Mi ricordai che, naso all’insù, ero affascinato da quello scorrere di costellazioni, nebulose e pianeti davanti ai miei occhi. Veniva poi il film vero e proprio, la cui visione poco mi interessava, ma che ero costretto a seguire notando che i miei genitori, con facce ora divertite ora assorte, sembravano apprezzare quelle pellicole.

In quel momento, mentre ero assorto in quelle rimembranze, in una sperduta stazione a sud della città, mi chiesi se anche quello di trovarmi lì, a due passi dalla mia meta, non fosse un altro sogno, ma poi mi dissi che, se quello fosse stato un sogno, forse avrei utilizzato quei lontani ricordi per renderli reali, come essi erano adesso. Quelle immagini che mi comparivano alla mente, quelle ossessioni o semplici déjà vu, mi avrebbero accompagnato per tutta quella breve esperienza che avrei avuto sotto la guerra e che, insieme ad altre, sarebbero state il filo conduttore di tutta la mia vita futura. Il viaggio, la ricerca di un porto sicuro, la sensazione di stare per realizzare quei desideri latenti e di incontrare quelle persone e scoprire quei luoghi che mi avrebbero fatto diventare un uomo consapevole,  ora mi sembravano reali più che mai.

 Lo studio, pensai, sarebbe stato il primo elemento di emancipazione dalla violenza che sarei stato costretto a compiere, che mi avrebbe spinto, insieme ad una  indiscussa ambizione, a traguardi che non mi sarei mai aspettato di raggiungere. Il tutto per un semplice sogno che, fin dal principio, mi aveva spinto a quella tortuosa ricerca che non avrebbe mai avuto fine fino all’ultimo dei miei giorni.

Solo allora, mentre ancora mi trovavo all’esterno della stazione, mi accorsi di essere digiuno da almeno due giorni e subito volli cercare un qualche posto di approvvigionamento nell’area circostante. I pochi negozi di alimentari erano chiusi, perché probabilmente i proprietari erano in cerca di merce da poter vendere, anche se a prezzi maggiorati, essendovi penuria di qualsiasi cibo commestibile, dalla verdura alla carne, al vino, alla frutta. Così entrai all’interno della stazione nella speranza di trovare qualche spaccio che servisse del cibo. La sala d’attesa era semivuota e non vedevo alcun banco che assomigliasse a un bar o a qualcosa di simile. Alla fine mi venne in mente di guardare all’esterno, verso la banchina che costeggiava i binari e notai un carrello condotto da un inserviente in giacca rossa che vendeva bibite e panini, anche se al momento non c’era nessun treno fermo che giustificasse la sua presenza sulla banchina.

I pochi treni che vedevo passare senza fermarsi erano tutti diretti a sud ed erano strapieni mentre quelli che passavano in senso opposto erano semivuoti. Questo voleva dire che parecchia gente fuggiva dalla città per raggiungere le località di provenienza, i paesini che avevano lasciato anni addietro per cercar fortuna nella capitale. La stazione quindi, pur essendo di passaggio, ben presto si affollò di dispersi, fuggiaschi, militari allo sbando con i loro improbabili vestiti borghesi che avevano raccattato chissà dove per camuffarsi da civili, tutti in attesa di qualche treno diretto al meridione. I loro volti sparuti e guardinghi lasciavano intravedere un’umanità che, dopo i primi entusiasmi di fine luglio, con la caduta del regime, adesso sembrava come annientata, priva com’era di certezze, di punti di riferimento sia militari che civili. Coloro che fino a poco tempo prima erano stati bottegai, scalpellini, portieri dei grandi palazzi della borghesia, camerieri, soldati, adesso divenivano possibili bersagli di un esercito occupante.

di Maurizio Chiararia

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